Riporto solo in parte
La donna è stata costretta a subire una trasfusione di sangue in base a una falsa dichiarazione del primario che ha riferito una inesistente autorizzazione del PM di turno in cui era stato prospettato il pericolo di vita del feto quando la donna aveva già abortito. La prassi ospedaliera di invocare l’intervento del pubblico ministero di turno è tanto diffusa quanto giuridicamente del tutto immotivata.
Correttamente il magistrato in udienza ha ben specificato di essere del tutto privo di poteri di intervento su trattamenti sanitari obbligatori che, a norma di Costituzione, devono essere specificamente previsti da una legge ordinaria dello Stato. Come è noto non esiste una legge che imponga una trasfusione ematica a pazienti dissenzienti.
Il rifiuto al trattamento prevale su ogni altro aspetto – quanto meno in questo caso e nei casi similari – e il richiamo dell’abusatissimo richiamo alla scriminante dello stato di necessità, ex art. 54 codice penale, osservano i giudici siciliani, non è comunque invocabile.
Interessante la notazione effettuata dal Tribunale di Termini Imerese proprio sullo stato di necessità:
“non esiste nel nostro ordinamento un soccorso di necessità cosiddetto coattivo, che appunto possa travalicare la contraria volontà dell’interessato, posto che il perimetro della scriminante stato di necessità, alla luce dei principi costituzionali, è rigidamente circoscritto al fatto che il paziente non sia in grado di prestare il proprio dissenso o consenso”. Cosa non presente nel fatto di specie. Sulla base di tali considerazioni la trasfusione praticata alla donna è stata ritenuta “del tutto ingiustificata”.
Risulta quindi integrato il reato di violenza privata che tutela, lo ricordiamo, la libertà psichica dell’individuo.
I tipici elementi per l’integrazione del reato sono stati presenti: la “condotta violenta e l’evento finale”. La condotta violenta si è concretizzata “in tutte le manovre poste in essere al fine di introdurre l’ago cannula in vena e quindi nel corpo del paziente”, mentre l’evento di coazione è consistito nell’immissione in circolo del sangue all’interno del suo corpo e quindi nella emotrasfusione”.
Nessuna rilevanza è stata riconosciuta sul fatto che la paziente non si sia “eventualmente divincolata e non abbia opposto resistenza fisica” visto che era fortemente debilitata – due interventi chirurgici in breve tempo e forte anemia (a parte il fatto che comunque una modesta iniziale contenzione le era stata praticata). Irrilevante anche il fatto che la donna non si sia successivamente sfilato l’ago cannula.
Il giudice siciliano ha poi usato parole forti nei confronti dei rapporti tra medici e infermieri anche se quest’ultimi non erano coinvolti nel giudizio. Afferma infatti che il primario ha agito quale “mandante della violenza privata, disponendo che alla paziente fosse praticata, nonostante il suo dissenso l’emotrasfusione”.
Il medico “mandante” e gli infermieri evidentemente esecutori. Il primario ha sfruttato la sua posizione gerarchica per imporre a infermieri – evidentemente non consapevoli del proprio ruolo – manovre atte a eseguire una trasfusione senza consenso.
La cultura organizzativa di chiara impronta gerarchica, tipica della seconda metà nel novecento, evidentemente continua a essere presente nelle organizzazioni sanitarie italiane facendo strame non solo della dignità di tutti i membri dell’equipe coinvolti, ma soprattutto dei diritti costituzionali delle persone assistite che si trovano alla mercè di questa impostazione professionale.
Non possiamo che concordare con chi era già intervenuto su queste colonne sulla vicenda, stigmatizzando l’esistenza di una diffusa cultura vitalista – copyright Maurizio Mori – nel mondo professionale che contrasta non solo con i principi costituzionali ma anche con i codici di deontologia medica degli ultimi 20 anni.
Rimangono sullo sfondo i due infermieri “esecutori” in quanto non coinvolti nella vicenda processuale, ma che sono intrisi della stessa arretratezza culturale dei loro dirigenti.
Luca Benci
Giurista
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