I libri diventano un best seller con 4 mila copie
bruno ventavoli
Classifica di «Tuttolibri». Due titoli al primo posto ex aequo. Il reportage di Friedman sull’America inquieta che ha votato Trump. E «Qualcosa» di Chiara Gamberale. La rabbia e la favola, in testa, insieme. Ma la notizia è un’altra. E non è buona.
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Per la prima volta, da cinque anni, i battistrada dei best seller hanno venduto meno di 5 mila copie in una settimana, 4350, per l’esattezza. È vero che il mese di febbraio non è granché. E che gli italiani hanno un rapporto non felice con la lettura (metà del nostro popolo di poeti preferisce voltarsi dall’altra parte quando vede una parola scritta sulla carta). Ma queste cifre miserande sono una suoneria d’allarme. Anche perché il grande buio della crisi dei consumi sembra alle spalle. E l’anno scorso il mercato librario ha registrato un (timido) segno più.
Le nostre classifiche, stilate dalla Nielsen, registrano solo le vendite in libreria. Gli altri canali restano fuori. Mancano soprattutto i dati di Amazon, che se li tiene ben segreti, ed è un golia dell’e-commerce. Gamberale & Friedman, dunque, potrebbero aver venduto anche il doppio, o forse più, rispetto a quanto registrato dal nostro sismografo statistico. Eppure, se anche così fosse, una piccola scossa di terremoto nella terra dei libri c’è stata. Meglio non sottovalutarla. Né consolarsi con la gran vitalità che serpeggia nei Festival letterari, come sta dimostrando il Salone di Torino rinnovato che marcia come un treno.
Colpe ne hanno gli editori, soprattutto i grandi, che ci inondano di novità. E la quantità, si sa, soffoca la qualità. O quantomeno accorcia mostruosamente la vita media di un libro. Diminuire le uscite di volumi candidati a poche vendite (davvero pochissime, spesso nemmeno i fratelli o la zia dell’autore stesso, comprano la consueta copia di cortesia), che intasano gli scaffali, i magazzini, e concludono la loro mesta esistenza nella «solitudine troppo rumorosa» del macero (copyright Bohumil Hrabal), sarebbe un primo passo, serio, per aiutare un mercato sano.
I librai, dal canto loro, devono tornare ad essere librai. Ovvero punto di riferimento per i lettori. Con consigli, tisane, bussole, amache. La stragrande maggioranza delle piccole librerie indipendenti svolge un ruolo prezioso. Non sempre, le grandi catene. Una scena esemplare con commesso fisiognomicamente interinale - vista direttamente - dice tutto. La cliente: «Avete la “Vita nova” di Dante?». «Non mi risulta in catalogo», risponde lui pestando i tasti del computer. «Accidenti, nessuna edizione?». «No, mi spiace. Se vuole c’è una “Vita nova”, però è di un altro, che si chiama Alighieri».
Le biblioteche pubbliche funzionano egregiamente. In tutta Italia. Da Settimo, a Modena, a Catania. Anche se fanno salti mortali con i bilanci tagliati da patti di stabilità ottusamente algebrici. Sono sempre meno polverose nell’aspetto. Ma devono diventare ancor più luoghi misti di cultura e svago, come avviene nei (soliti) Paesi nordici, dove insieme all’incunabolo coesiste l’addio al nubilato. Tenendo ovviamente conto delle ontologiche diversità tra aspirante sposa e Enneadi di Plotino.