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Czesław Miłosz

Ultimo Aggiornamento: 22/09/2018 19:31
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22/09/2018 15:58
 
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Le porte dell'arsenale


Teneri animali fedeli, tacendo, calmi
spiavano le terre dei parchi, socchiudendo
i loro occhi d’olivo. Le statue raccoglievano
sul capo foglie di castagni e con il rotolo
in pietra di leggi da tempo passate o i resti
di una spada andavano, coperte dall’alloro
di nuovi autunni, sull’acqua, là dove nuotava
una barchetta di carta. Da sotto la terra
cresceva una luce, un freddo bagliore traluceva
dal mantello striato dei guardinghi animali
giacenti, dalle cantine degli edifici
chiazzati dalla schiuma del giorno, e si scorgevano
le ali degli alberi volare nel fumo.

Fiamma, o fiamma, immense musiche risuonano,
un moto eterno turba i boschi, con le mani
legate, a cavallo, su affusti, sotto un turbine
immobile, soffiando in muti flauti, girano
i viaggiatori, incrociandosi in cerchio, a vicenda
mostrandosi le labbra saldate dal gelo,
storte nel richiamo, o i sopraccigli sdruciti
della saggezza, o le dita in cerca di cibo
nel petto spogliato di nastri, ordini, cordoni.

Un brusìo tempestoso, un fragor d’onda, un frusciare
di pianoforti si leva dal baratro. Là forse
gruppi di betulle suonano piccole nubi,
o greggi di capre tuffano le bianche barbe
nel dolce vaso di una verde forra, o gli argini
rispondono ai ruscelli delle valli arate
e avanzano i carri pieni con la sera a fianco,
finiscono di ardere le stoppie insieme
al riso della gente, al trapestìo dei passi?

O giardini sonnambuli, regni di profondi
sogni, benignamente accoglietela, viene
dal mondo in cui cresce tutta la beltà che vive.
Così, come non fosse cosa caduca, un pugno
di cenere, per quanto breve dura
il sole nel suo volo, voi prendetela,
che mai non debba chiamare a sé l’amore.

Avanza nei viali bluastri, lontananti, dentro
il brillante corteo, non conoscendo il fondo
dei nebbiosi giardini, una donna giovane
facendosi schermo agli occhi con la mano.
Gli animali distolgono i musi dal prato
e il barbuto custode trotta su un cavallino
storto, tendendo l’arco con la freccia d’oro.

Stormisce una bufera sotto i piedi che avanzano
nel falso silenzio e una nuvola di capelli
castani spiove dalla fronte levata, piccolo
pianeta. Argento stilla dalle labbra,
la paura spegne il rossore, ansima inquieto
il petto rappreso in due gocce di ghiaccio, un lampo
scocca. Per la luce, tutto ciò che è vivo muore.

Cadono le vesti incenerite, arde il cespo
della peluria e nudo il ventre apparirà
come un cerchio d’ottone, le agili cosce
più non reggeranno i sogni, nude e pure
fumeranno come rossicce Pompei.

E se nascerà un bimbo da questo sangue slavo,
occhi d’albugine, rotolerà dai gradini
giù con la testa greve, a quattro zampe nell’aria
dormirà giorno e notte come un cavallo morto
sopra la corta erba dei pascoli bruciati.

Riti e ghirlande su lei s’intrecceranno,
la sera le porrà sulla fronte spine d’ombra
e la mano che sparge semi agli angeli gobbi
darà un riposo eterno a tutte le bufere.

Facendo girare cerchi gialli e portando
navi cariche d’un esercito di soldati
di latta, venivano ragazzi dalle piazze,
una pioggerella fresca cadeva e cantava
un uccello, una piccola nuvola entrava
lentamente nella luna divisa in due.
Con occhi umidi cavalieri guardavano
dritti nel tramonto. E c’erano rincorse
di cani sulle aiole. Sopra scale dorate
sedevano gli amanti. Sulla terra un silenzio,
un’orchestra tuffata alle porte del crepuscolo
ammutoliva nella lunga via e sulle siepi
le mimose gelavano chinandosi alla notte.
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