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Il sapere che brucia. Libri, censure e rapporti Stato-Chiesa nel Regno di Napoli fra ‘500 e ‘600

Ultimo Aggiornamento: 11/01/2010 12:42
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11/01/2010 12:12
 
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L'autore dell'articolo è docente universitario, nonchè relatore della mia tesi di Laurea [SM=g28002]


Anche in Puglia il sapere bruciò

di Pietro Sisto

La storia del libro a stampa e del libero pensiero è stata accompagnata per secoli da una «storia parallela» dai contorni a dir poco oscuri: quella della censura e dell’«Indice dei libri proibiti», una lunga lista di titoli, editori e tipografi che la Chiesa segnalava con preoccupata attenzione a chierici e laici rispettosi dell’«ortodossia». Un’attenzione che spesso si tradusse in lunghi processi, in condanne al carcere e alla tortura non solo di filosofi e scienziati, ma anche di sacerdoti e monaci sospettati di eresia, magia e stregoneria, nell’accensione di falò nei quali furono bruciati sia le pagine dei libri incriminati sia i corpi di autori e tipografi poco ligi alle direttive ecclesiastiche.

E proprio il fuoco divenne quasi il simbolo della protervia e dell’intolleranza della Chiesa cattolica nei confronti della libertà di parola e di pensiero. Non furono pochi, in realtà, i prelati e gli inquisitori che paragonarono la diffusione delle idee «riformate» e «libertine» al contagio della peste: come, infatti, si faceva ampio ricorso alle fiamme per distruggere oggetti e abiti posseduti dagli appestati nella speranza di circoscrivere l’epidemia, così la Chiesa, bruciando cataste di libri e riviste, si illuse per molto tempo di sorvegliare la circolazione del sapere.

E tutto questo fino al 1966 quando Paolo VI decise di abolire l’«Indice».

Ad alcuni aspetti e momenti di questa dolorosa, cruenta vicenda rivolge l’attenzione con un interessante e ben documentato volume Milena Sabato che si sofferma sui difficili, controversi rapporti tra Stato e Chiesa nel Regno di Napoli e in particolar modo in Terra d’Otranto nell’età della Controriforma. Il volume s’intitola: Il sapere che brucia. Libri, censure e rapporti Stato-Chiesa nel Regno di Napoli fra ‘500 e ‘600; ed è edito da Congedo (pp. 282, euro 25).

L’autrice utilizza proficuamente le suggestioni metodologiche rivenienti da corpose ricerche pubblicate negli ultimi decenni non solo in Italia ma anche in diversi Paesi europei e si avvale di notizie e dati raccolti soprattutto negli archivi vaticani e diocesani. Offre così al lettore un quadro ampio e dettagliato della censura in questo estremo lembo del Regno di Napoli dove il Sant’Uffizio attraverso i vescovi riuscì a controllare l’attività editoriale e il commercio librario, mettendo in molti casi in discussione il difficile, precario equilibrio dei rapporti Stato-Chiesa e soprattutto pregiudicando sovranità e prerogative regie.

Una capillare e sistematica attività di controllo sui libri fu subito auspicata all’indomani del Concilio di Trento dai sinodi diocesani non solo della capitale, ma anche di città periferiche come Giovinazzo dove nel 1566-67 il vescovo, a proposito della formazione del clero, dispose che «l’insegnante di grammatica svolgesse le sue lezioni astenendosi, come stabilito dal Tridentino, dall’uso di libri proibiti o sospesi o da altri libri lascivi che potessero corrompere la morale dei giovani». Con molta cautela si doveva inoltre procedere alla lettura di Virgilio e Orazio, mentre erano del tutto bandite le opere di Marziale e Catullo.

I vescovi di Nardò, per la presenza a Copertino della prima tipografia stabile della Puglia, quella di Bernardino Desa, riservarono invece una particolare attenzione alla stampa dei libri in una zona dove era diffusa una «mala razza d’Eretici, che da luoghi circonvicini copertamente seminando il rio veleno delle loro false dottrine contro de’ Sacramenti (…) già infettato aveano qualche parte di quella Diocesi».

Nel 1630 l’arcivescovo di Otranto, preoccupato per l’introduzione di libri proibiti via mare, minacciò di scomunicare giudici, doganieri e guardiani del porto che avessero favorito l’arrivo di testi a stampa e manoscritti «senza espressa licenza e facoltà».

Uno zelo non certo minore dimostrò l’arcivescovo di Lecce Luigi Pappacoda che, per la presenza in loco di una avviata tipografia come quella di Pietro Micheli e di diverse librerie, nel 1660 con un apposito editto dispose la cattura di quanti possedevano e leggevano non solo testi astrologici, zodiacali e alchemico-esoterici ma anche di medicina, agricoltura e arte della navigazione. Qualche anno più tardi lo stesso prelato obbligò i tipografi ad accertarsi che l’opera da stampare avesse ottenuto la relativa autorizzazione dal vescovo o dal vicario generale e, nel caso di autori appartenenti ad ordini religiosi, quella dei loro superiori. Vietò, inoltre, l’inserimento nei libri di «immagini oscene o turpi, sia pure nei capilettera».

E le normative della Chiesa divennero così complesse e farraginose da determinare situazioni imbarazzanti se non addirittura paradossali: da un lato le alte gerarchie ecclesiastiche potevano leggere e possedere i libri proibiti ed espurgabili, dall’altro «il solo possesso di tali scritti veniva considerato peccato mortale da denunziare al Sant’Uffizio». Di qui la decisione di concedere permessi di lettura a quanti ne facevano regolare richiesta: gli ecclesiastici, interessati soprattutto a manuali di diritto, si segnalarono ben presto per il numero consistente di permessi presentati, i nobili si dimostrarono particolarmente interessati ai libri di duello, letteratura e storia, molti avvocati «di buona fama» e «timorati di Dio» chiesero l’autorizzazione a leggere importanti e fondamentali opere di carattere giuridico senza incorrere nella scomunica.

Divieti e permessi, censure preventive e repressive non fecero, infine, che favorire la circolazione manoscritta e clandestina, di nicchia e di macchia, delle opere ritenute più pericolose e compromettenti come la Clavicula Salomonis, il testo di magia più diffuso tra Medioevo e Rinascimento, il cui possesso significò l’accusa di negromanzia per Giovanni Andrea Rosello, studente di medicina di Ruvo domiciliato a Napoli, e anni di carcere per frati e sacerdoti dediti a sortilegi ed esorcismi soprattutto nelle campagne del Regno di Napoli dove, tra superstizioni e pregiudizi di ogni genere, non fu ugualmente facile sottrarsi alle condanne dei tribunali civili e del Sant’Uffizio.

www.lagazzettadelmezzogiorno.it/GdM_le_analisi_NOTIZIA.php?IDNotizia=299246&IDCatego...
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