Re:
Giandujotta.50, 28/04/2018 08.00:
"finalmente" il piccolo Alfie se n'è andato.
Credo che la fine-vita dovrebbe essere materia trattata un po piu 'umanamente' e sopratutto dovrebbero essere i diretti interessati a decidere.
nel caso di minori, la responsabilità dovrebbe essere data ai genitori.
Credo che il calcolo economico dovrebbe essere escluso da ogni decisione.
seguendo questo criterio ad un 80enne, un SSN potrebbe negargli persino gli antibiotici... oltre al risparmio farmaceutico si risparmierebbe anche sulla pensione.
arriveremo anche a questo
io provocatoriamente lo accosto ad un’altro articolo e chiedo:
chi ha il diritto alla vita?
e chi stabilisce i canoni affinché sia concesso ad un bambino di venire al mondo?
temo che ci abitueranno a molto altro
avremo oltre ai vaccini anche uno screening pre e neonatale obbligatorio?
(e a me torna in mente una follia del passato)
Alfie e i suoi "fratelli": quando il giudice fa staccare la spina
Prima del piccolo di Liverpool, stessa sorte in Gran Bretagna per Charlie Gard e Isaiah Haastrup. E in Francia...
E' già successo in Gran Bretagna. Come Alfie Evans, altri piccoli malati hanno cessato di vivere per sentenza di un giudice, contro il volere dei genitori che a dispetto dei sanitari avrebbero voluto tenere i loro figli in vita a tutti i costi. E' già successo, più di recente, a Isaiah Haastrup e, nel caso più eclatante, a Charlie Gard. Un dibattito, quello tra cessazione delle cure e quello che per alcuni è accanimento terapeutico mentre per altri è lotta per la vita, attualissimo anche in Francia.
Charlie, Isaiah, Alfie: storie finite sui media perché i genitori hanno deciso di dare battaglia contro un sistema medico e giudiziario che ritiene "nel migliore interesse" di questi pazienti non mantenere ventilazione e alimentazione assistita, in casi in cui non si danno speranze di guarigione o miglioramento. Ma sono probabilmente migliaia i casi simili che restano fuori dai riflettori. E' di due anni fa una polemica scoppiata nel Regno Unito quando un rapporto rivelato dal Daily Telegraph mise in luce che in un quinto dei casi le famiglie dei pazienti non erano neppure consultate sull'opportunità o meno di staccare la spina ai macchinari che tengono in vita i propri cari
LEDÌ 23 AGOSTO 2017
L’Islanda e la sindrome di Down
I test prenatali stanno provocando ovunque una diminuzione dei bambini con la sindrome di Down, ma in alcuni posti più che in altri
(AP Photo/Jacqueline Larma, File)
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Da alcune settimane si discute di nuovo, su alcuni giornali internazionali e anche in Italia, delle donne che scelgono di interrompere la gravidanza dopo aver ricevuto una risposta positiva al test prenatale circa la presenza di anomalie cromosomiche nel feto. Con la diffusione in tutta Europa e negli Stati Uniti di screening prenatali sempre più accurati e meno invasivi, il numero di bambini nati per esempio con la sindrome di Down (una delle possibili anomalie rilevate dai test) è infatti molto diminuito.
L’occasione della nuova discussione è stato un servizio di CBSsull’Islanda, dove quasi la totalità delle donne che scopre anomalie cromosomiche al feto decide di abortire. Il servizio, e il relativo articolo, sono stati ripresi e commentati su altri giornali e siti anche con titoli falsi e imprecisi (“L’Islanda uccide il 100 per cento dei bambini con la sindrome di Down attraverso l’aborto”, per esempio): e si è tornati a parlare, anche con toni molto aggressivi, di eugenetica, di aborto selettivo, di “sacralità della vita”, di “estinzione dei Down” e così via. La questione, naturalmente, è più complessa di così: ha a che fare anche con la cosiddetta diagnosi genetica pre-impianto, che dà informazioni sulla presenza di eventuali malattie genetiche dell’embrione prima che questo venga impiantato nell’utero, e non riguarda solo l’Islanda.
In Islanda i test di screening prenatale sono stati introdotti nei primi anni 2000: sono facoltativi, ma il governo lavora molto per informare di questa possibilità le donne incinte del paese. Secondo i dati del Landspitali University Hospital di Reykjavik, tra l’80 e l’85 per cento delle donne in gravidanza sceglie di sottoporsi a questo tipo di screening e quasi il 100 per cento di loro, dopo un responso positivo, sceglie di interrompere la gravidanza. Come racconta CBS, quasi la totalità delle donne che si sono sottoposte all’esame il cui esito ha segnalato un indice di rischio di anomalie più alto rispetto a una soglia considerata “normale” ha deciso di abortire. È un loro diritto, visto che la legge in Islanda consente l’aborto anche dopo le sedici settimane in caso di anomalie nel feto, sindrome di Down inclusa.
L’Islanda ha una popolazione di circa 330 mila persone e ha una media di una o due persone all’anno nate con sindrome di Down: non è un caso se sia stato scelto come luogo su cui indagare, visto che dimensioni così ridotte della popolazione permettono di usare paroloni come “estinzione”. Secondo i dati più recenti negli Stati Uniti il tasso di interruzione di gravidanza legato alla rilevazione di sindrome di Down è pari al 67 per cento, in Francia al 77 per cento, nel Regno Unito al 90 per cento e in Danimarca al 98 per cento. Hulda Hjartardottir, capo dell’unità di diagnosi prenatale dell’ospedale universitario di Reykjavik, dove nascono circa il 70 per cento degli islandesi, ha spiegato a CBS che «I neonati con sindrome di Down nascono ancora in Islanda» ma che «alcuni di loro erano risultati a basso rischio nella nostra prova di screening». I test di screening più diffusi (cioè il test combinato del primo trimestre, noto anche come Dual Test) sono accurati solo nell’85-90 per cento dei casi: presentano cioè fino al 15 per cento di mancati riconoscimenti della malformazione.