Re: Re: Re: Re:
Jobbe96, 03/06/2010 12.16:
Ma allora il capitolo 7 di rivelazione non ha senso!!
Dipende da come sei abituato ad intenderlo.
Ti posto un altro punto di vista :
Commento esegetico ad Apocalisse 7.
Tra il sesto e il settimo sigillo, Giovanni inserisce la visione della Chiesa, che ha lo scopo di contrapporre la Chiesa, gloriosa e protetta da Dio, agli “abitanti della terra” che sono presi dal panico per l’approssimarsi del giudizio (6, 15-17). In questa prima visione, Giovanni vede il popolo di Dio su questa terra posto sotto la divina protezione in vista del tempo dell’imminente tribolazione.
“Quattro angoli della terra”: la terra è vista come una superficie rettangolare (20,8; Is. 40,22).
“Quattro venti”: si credeva che i venti favorevoli spirassero dai lati della terra, mentre quelli nocivi dagli angoli. I quattro venti che soffiano dai confini della terra (Ger. 49, 36; ; Mc 13,27; Dan. 8,8; 11,4) simboleggiano le forze distruttrici di questo mondo e annunciano l’ultimo giorno (Dan. 7,2; Zacc. 6,5).
“Quattro angeli”: come un angelo ebbe il potere sul fuoco (14,18) e un altro il dominio sull’acqua (16,5), così i quattro angeli sono qui preposti ai venti con il compito di imbrigliarli.
“Il sigillo del Dio vivente”: secondo l’usanza degli antichi, i signori orientali imprimevano il sigillo del loro anello sulle loro proprietà; qualunque cosa contrassegnata dal sigillo apparteneva al signore ed era sotto la sua protezione (Ez. 9,4; Es. 12, 7-14).
Chiunque porti “il sigillo del Dio vivente” sarà perciò sua proprietà (2 Cor. 1,22; Gal. 6,17; Ef. 1,13; 4,30; Gv. 6,27). Ciò non vuol dire che i cristiani debbano sfuggire alla persecuzione o alla morte (6,11; 13,15; 20,4); ma Dio darà agli oppressi la forza necessaria per aiutarli a perseverare.
“144 mila”: cioè 12x12x1000. Il numero 12 corrisponde alle tribù d’Israele, (il popolo di Dio) e 1000 indica un numero molto grande, perciò 144.000 simboleggia la moltitudine degli eletti il cui vero numero è noto a Dio soltanto (6,11).
“Nazione, razza, popolo e lingua”: la folla degli eletti è incalcolabile. In un primo momento sembra che gli eletti provengano unicamente dalle tribù d’Israele, ma poi si precisa che la folla dei salvati proviene da ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Giovanni non pensa all’antico Israele, ma al “nuovo”, che non è racchiuso entro i confini della razza, ma della fede.
“Giuda”: questa tribù è enumerata per prima perché da essa proviene Cristo (5,5).
“Levi”: sostituisce Dan, tribù considerata infedele e dalla quale, secondo la tradizione più tardiva, sarebbe sorto l'anticristo.
“Una folla che nessuno poteva contare”: i vv. 9-12 descrivono il trionfo degli eletti, mentre i vv. 13-17 si soffermano a spiegare i dettagli che simboleggiano la loro felicità: “le palme” sono un segno della vittoria e del ringraziamento degli eletti (1 Macc. 13,51; 2 Macc. 10,7); “la salvezza” esprime la lode degli eletti a Dio e all’Agnello, per la loro salvezza; l’“Amen”: posto all’inizio e alla fine della dossologia, fa da cornice all’intero inno ed esprime la piena partecipazione di tutti gli angeli alla lode degli eletti (5,14; 19,4).
“Questi sono coloro che sono passati dalla...”: molti li identificherebbero solo con i martiri. Sarebbe tuttavia forse meglio identificare questa folla con tutti i membri della Chiesa che sono rimasti fedeli durante la crisi finale: questa visione continua quella precedente concernente l’intera Chiesa sulla terra.
“Grande tribolazione”: allude, forse, alle persecuzioni scatenate contro i cristiani, soprattutto a quella di Nerone che ne era il prototipo. Ma può anche riferirsi alla grande tribolazione (Dan. 12,1; Mc. 13,19) descritta in 13,7-10 che, (secondo tutti i testi apocalittici) precederà il giudizio finale.
“Hanno lavato le loro vesti”: la “veste bianca” significa molto spesso la gloria celeste degli eletti (3,5; 6,11; 19,8) e degli angeli (4,4; 19,14).
Tuttavia, la “veste bianca” non è una conseguenza dell’ingresso nella gloria escatologica, ma piuttosto una condizione (22,14). In realtà quest’immagine designa la stessa condizione cristiana, un dono di Cristo elargito nel momento in cui l’uomo diventa membro della Chiesa. Ma c’è il pericolo di perdere questo dono; la “veste bianca” pertanto connota, per il cristiano tuttora sulla terra, un aspetto morale, cioè di impegno per conservare questo dono fino al termine della vita terrena.
“Nel sangue dell’Agnello”: il “sangue” è simbolo della morte di Cristo e dell’efficacia della sua opera salvifica (Ef. 1,7; Col. 1,20; Eb. 9,14). La formula “nel sangue” utilizzata nel N.T. (Ef. 2,13; Rom. 3,25) potrebbe derivare dalla liturgia eucaristica (1 Cor. 11,25).
Come gli angeli (4,8 ss.), gli eletti che vivono in unione con Dio sono rappresentati nell’atto di celebrare senza interruzione una liturgia celeste (21,5; 22,5). La totalità del popolo santo di Dio prende parte a questa adorazione, e non soltanto i sacerdoti.
La felicità celeste è descritta in una serie di espressioni veterotestamentarie. I verbi sono tutti al futuro e pongono in risalto come questa visione termini con una promessa: i cristiani non conosceranno mai più la “sofferenza” (Is. 49,10; Salmo 121,6; Gv. 4,14; 6,35; 7,37). L’ “Agnello sarà loro pastore”: Sal.23; 80,2;Is. 40,11; Ez. 34,23; Gv. 10, 11-16; “li guiderà”: Es. 15,13; Deut. 1,33; Sal. 5,9; 86,11; “alle fonti delle acque della vita”: Ger. 2,13; Sal. 35,10; “asciugherà ogni lacrima”: Is. 25,8.
In sintesi: il testo mostra una visione anticipata della beatitudine celeste (che verrà descritta al cap. 21), della Chiesa trionfante, la Gerusalemme celeste il cui “progettista e architetto è Dio stesso” (Eb. 11,10).
Commento spirituale.
Questo brano descrive con alcune immagini bibliche la gioia escatologica e la felicità dei “beati”: “l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi”.
Il Cristianesimo è la religione della gioia, non a caso la figura letteraria della “beatitudine” è piuttosto frequente nella Bibbia.
Come mai allora molti credenti non mostrano di essere particolarmente felici? Qual è la via cristiana della felicità?
Secondo le beatitudini dell’Antico Testamento, la felicità si trova nella fede in Dio, nel devoto rispetto verso di lui, nell’obbedienza alla sua legge: “Beata la nazione il cui Dio è il Signore, il popolo che si è scelto come erede” (Sal. 33,12); “Beato chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe, chi spera nel Signore suo Dio, creatore del cielo e della terra, del mare e di quanto contiene. Egli è fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati” (Sal. 146, 5-7); “Beato l’uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie” (Sal. 128,1), “Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte” (Sal. 1, 1-2).
Nel Nuovo Testamento si incontrano le beatitudini della fede (Lc. 1,45; 11,28; Gv. 20,29), della scoperta di Gesù (Mt. 13,16; 16,17), della vigilanza operosa (Mt. 24,46), del servizio reciproco (Gv. 13,17) e altre ancora. Soprattutto risaltano le beatitudini del Regno (Mt. 5, 3-12; Lc. 6, 20-23), che sintetizzano la perfezione cristiana e delineano il ritratto del discepolo di Gesù. Anzi, prima ancora, “sono una specie di autoritratto di Cristo e, proprio per questo, sono inviti alla sua sequela e alla comunione di vita con lui” (Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor, 16). Esse indicano una via imprevedibile e paradossale alla felicità: è la via dell’amore crocifisso, che dà significato alla sofferenza anche prima di eliminarla e, quando è possibile, lotta con mezzi pacifici per superarla.
I poveri, i malati, i perseguitati possono essere felici. Con il dono di se stessi nell’amore partecipano alla vita e alla gioia di Dio, che riscatta qualsiasi situazione. L’annuncio di Gesù trova sorprendente verifica nell’esperienza concreta dei suoi discepoli. Così si esprime Paolo con i cristiani di Corinto: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione” (2 Cor. 1, 3-4); “Afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!” (2 Cor. 6,10), “Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione” (2 Cor. 7,4); “Mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2 Cor. 12,10).
Questa gioia, che può coesistere anche con la sofferenza, è partecipazione del cristiano alla pasqua di Cristo. “Come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione” (2 Cor. 1,5); “Abbiamo questo tesoro in vasi di creta... portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo” (2 Cor. 4,7.10).
La via cristiana alla felicità si delinea con particolare nitidezza nel Discorso della Montagna o “Beatitudini”; esse si riassumono nell’affidarsi totalmente all’amore di Dio e nel riamare Dio e gli altri fino al dono totale di sé. Su questa via Gesù si pone davanti a noi come modello vivo e personale, con una forza di persuasione e una ricchezza di valori che trascende qualsiasi norma etica. Egli incarna la legge e la supera nell’amore. Chi lo segue “non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv. 8,12).
Pax
Araldo