Mi pare che anche Benedetto XVI abbia voluto evidenziare i limiti spirituali di un'esegesi basata esclusivamente sulla lettura storico-critica che ha ridotto il ministero del Cristo a poche parole a lui applicabili. Penso che anche le derive più fondamentalistiche, queste veramente esagerate, abbiano comunque aiutato ad evidenziare il dogmatismo di chi si basa solo sul metodo storico-critico.
L'allora Cardinale Ratzinger più di 10 anni fa, se non erro, evidenziò i limiti del metodo storico-critico come riporta il sito amici di Ratzinger
Problemi del fondamento ed orientamento dell'esegesi contemporanea
Traduzione dal francese di Natale Benazzi con revisione sul tedesco di Stefano Gennarini. Note a cura di Ambrogilo Piazzoni; testo tratto da AA.VV., L'esegesi cristiana oggi,Casale Monferrato (AL) 1991, pp. 93-125
Joseph card. Ratzinger
I. CONSIDERAZIONI PRELIMINARI: LA SITUAZIONE ED IL COMPITO
1. Impostazione del problema
Ne "La storia dell'Anticristo" di Wladimir Soloviev, il nemico escatologico del Redentore si raccomanda segnatamente ai credenti per aver ottenuto il proprio dottorato in Teologia a Tubinga, ed aver scritto un'opera esegetica che gli vale il riconoscimento di pioniere in questo campo. L'Anticristo, celebre esegeta! Con questo paradosso, Soloviev - circa cent'anni fa - ha messo in luce l'ambivalenza che caratterizza la metodologia dell'esegesi biblica moderna. Oggi è già quasi un'ovvietà parlare della crisi del metodo storico-critico: esso aveva però preso inizio in un clima di immenso ottimismo.
All'interno della nuova libertà di pensiero, verso cui l'Illuminismo si era spinto, il dogma appariva come il vero ostacolo ad una comprensione esatta della Bibbia considerata in se stessa. Liberati da questo presupposto inadeguato e armati di una metodologia che prometteva una rigorosa obiettività, si era finalmente in grado, cosi sembrava, di poter udire di nuovo la voce pura e inalterata dell'origine. Di fatto ciò che da tempo era stato dimenticato veniva di nuovo alla luce; dietro la omofonia dell'interpretazione tradizionale, si poteva di nuovo percepire la polifonia della storia. E quanto più l'elemento umano della storia sacra veniva messo in rilievo, tanto più grande e più vicina appariva l'azione di Dio.
Tuttavia, a poco a poco, il quadro veniva facendosi sempre più intricato:le teorie si moltiplicavano; si susseguivano le une alle altre e formavano una barriera che impediva ai non iniziati di accedere alla Bibbia. E d'altronde gli iniziati stessi non leggevano più la Bibbia, ma ne facevano piuttosto una dissezione per giungere agli elementi a partire dai quali essa sarebbe stata composta.
Il metodo stesso sembra esigere questo approccio sempre più radicale: esso non può arrestarsi a metà cammino, nello scandagliare l'intervento dell'uomo nella storia sacra; deve piuttosto tentare di sopprimere ogni residuo a-razionale, rendere tutto chiaro.
La fede non è un elemento costitutivo del metodo e Dio non è un fattore di cui occorre tener conto nell'avvenimento storico. Ma poiché nella esposizione biblica della storia, tutto è penetrato dall'azione divina, deve cominciare una complicata anatomia della parola biblica: si deve cercare di disfare l'ordito in modo tale da avere in mano alla fine il "propriamente storico", cioè il puramente umano dell'avvenimento, e spiegare anche come è accaduto che successivamente l'idea di Dio sia stata reintrodotta ovunque nella trama. Si deve così, contro la storia esposta, costruirne un'altra, "reale"; si devono trovare dietro le fonti esistenti - i libri della Bibbia - delle fonti più primitive, che diventino la norma referenziale dell'interpretazione. Nessuno può essere sorpreso che un tale modo di procedere conduca ad una abbondanza di ipotesi sempre più numerose, sino al formarsi, alla fine, di una giungla di contraddizioni. In conclusione si studia non più ciò che il testo dice, ma ciò che dovrebbe dire, e quali sono le componenti alle quali lo si può ricondurre(1).
Un tale stato di cose non poteva che suscitare delle reazioni contrarie. I più prudenti tra i teologi sistematici cercano di produrre una teologia indipendente per quanto è possibile dall'esegesi (2). Ma quale valore può avere una teologia che si separa dalle proprie fondamenta? È questo il motivo per cui ha cominciato a guadagnare adepti un approccio radicale, detto "fondamentalismo": i suoi fautori stigmatizzano come falsa in se stessa e assurda ogni applicazione del metodo storico alla Parola di Dio. Costoro vogliono tornare alla purezza letterale della Bibbia, prenderla come si presenta e come la comprende il lettore comune: proprio come Parola di Dio. E qual è la comprensione "normale" che intende la Bibbia nella sua specificità? Il fondamentalismo può, certo, invocare a favore che il "luogo" della Bibbia, la prospettiva ermeneutica da lei stessa scelta, è il modo di vedere dei "piccoli", degli uomini con"un cuore semplice" (3). Tuttavia, resta il fatto che l'esigenza di "letteralità"e di "realismo" non è cosi univoca come può sembrare. Un'altra alternativa sarebbe di ricorrere al problema dell'ermeneutica: la spiegazione del processo storico non sarebbe che una parte del compito dell'interprete; l'altra sarebbe la comprensione del testo nell'oggi. Di conseguenza, occorrerebbe indagare sulle condizioni del comprendere stesso cosi da giungere ad una attualizzazione del testo che vada oltre una "anatomia del defunto" puramente storica (4).Il progetto è corretto perché si è ancora lontani dalla comprensione di una cosa quando se ne sa spiegare il processo di formazione.
Ma come mi è possibile giungere ad una comprensione che non sia fondata sull'arbitrio dei miei presupposti, una comprensione che mi permetta veramente d'intendere il messaggio del testo, restituendomi qualcosa che non viene da me stesso? Una volta che la metodologia,attraverso la sua anatomia, ha ucciso la storia, chi potrà ancora risuscitarla,in modo che ancora possa parlarmi veramente, come una realtà vivente? In altri termini, se l'"ermeneutica" deve diventare convincente, occorre innanzitutto che scopra un'armonia tra l'analisi storica e la sintesi ermeneutica.
Senza dubbio nel dibattito ermeneutico sono stati compiuti seri progressi in questa direzione; ma, a dire il vero, io non vedo ancora una risposta convincente (5).Quando Bultmann utilizzava la filosofia di Heidegger come uno strumento per l'attualizzazione della parola biblica, questo era in consonanza con la sua ricostruzione di ciò che è proprio del messaggio di Gesù. Ma questa ricostruzione non era un prodotto di quella filosofia? Quale poteva essere la sua credibilità da un punto di vista storico? Alla fine è Gesù o Heidegger che noi ascoltiamo in un tale tentativo di comprensione? Eppure, difficilmente si potrà negare a Bultmann di essersi confrontato col problema di come accedere al messaggio biblico.
Ma oggi si manifestano alcune forme di esegesi che non si possono spiegare se non come sintomi della decomposizione dell'interpretazione e dell'ermeneutica. Le esegesi materialiste e femministe non possono pretendere di essere un'interpretazione del testo e delle sue intenzioni. Tutt'al più possono esprimere la convinzione che il senso proprio della Bibbia sia o completamente inconoscibile o privo di significato per la realtà della vita presente. Quindi non si interrogano più sulla verità, ma invece soltanto su ciò che può servire ad una prassi scelta da loro. La combinazione di tale prassi con elementi della tradizione biblica,si giustifica allora per il fatto che questo apporto di elementi religiosi rafforzalo slancio dell'azione. In questo modo, il metodo storico può anche servire come copertura ad una tale manovra, nella misura in cui divide la Bibbia in unità discontinue, che si prestano quindi a una nuova utilizzazione e che possono, con un senso differente, essere ricomposte attraverso un nuovo montaggio (6).
Solo apparentemente le "interpretazioni" della psicologia del profondo appaiono più serie. Qui gli avvenimenti narrati dalla Bibbia sono ricondotti ad immagini primordiali mitiche che sarebbero sorte dalle profondità dell'anima in forme mutevoli, attraverso tutta la storia delle religioni, e che dovrebbero indicarci la via per il cammino redentore verso le profondità salvatrici della nostra anima (7). Anche qui la Scrittura si legge contro la sua intenzione: non sarebbe più invito a rifiutare gli idoli, ma il modo in cui si presenta in Occidente il mito eterno della redenzione. L'avidità con la quale tali forme di "interpretazione" sono oggi spesso ritenute, anche dalla teologia, una valida alternativa, è forse il segno più drammatico dello stato d'emergenza nel quale sono cadute l'esegesi e la teologia.
Questa situazione è abbastanza simile, oggi, nella teologia cattolica e in quella evangelica, anche se ciascuno, seguendo le proprie tradizioni scientifiche, ha diversi modi di esprimersi rispetto a taluni dettagli. Per quanto concerne il versante cattolico, il Concilio Vaticano II non ha certo creato questo stato di cose, ma non è stato nemmeno in grado di impedirlo. La Costituzione sulla Divina Rivelazione ha cercato di stabilire un equilibrio tra i due aspetti dell'interpretazione,l'"analisi" storica e la "comprensione" d'insieme. Da una parte ha sottolineato la legittimità ed anche la necessità del metodo storico,riconducendolo a tre elementi essenziali: l'attenzione ai generi letterari; lo studio del contesto storico (culturale, religioso, ecc.); l'esame di ciò che si usa chiamare "Sitz im Leben". Ma il documento del Concilio vuole al tempo stesso mantenere fermo il carattere teologico dell'esegesi e ha indicato i punti di forza del metodo teologico nell'interpretazione del testo: il presupposto fondamentale sul quale riposa la comprensione teologica della Bibbia è l'unità della Scrittura. A questo presupposto corrisponde come cammino metodologico "l'analogia della fede", cioè la comprensione di singoli testi a partire dall'insieme. Il documento aggiunge altre due indicazioni metodologiche: la Scrittura è una cosa sola a partire dall'unico popolo di Dio che ne è stato il portatore attraverso tutta la storia. Conseguentemente leggere la Scrittura come una unità significa leggerla a partire dalla Chiesa come dal suo luogo vitale, e considerare la fede della Chiesa come la vera chiave d'interpretazione. Da un lato ciò significa che la tradizione non chiude l'accesso alla Scrittura: piuttosto lo apre;d'altro canto significa che spetta nuovamente alla Chiesa, nei suoi organismi istituzionali,la parola decisiva nell'interpretazione della Scrittura (8).
Ma questo criterio teologico del metodo è incontestabilmente in contrasto con l'orientamento metodologico di fondo dell'esegesi moderna; è precisamente, anzi, ciò che l'esegesi tenta di eliminare ad ogni costo. Questa concezione moderna può essere descritta in questo modo: o l'interpretazione è critica, o si rimette all'autorità; le due cose insieme non sono possibili. Compiere una lettura "critica" della Bibbia significa tralasciare il ricorso ad una autorità nell'interpretazione. Certo, la "tradizione" non deve essere totalmente esclusa come mezzo di comprensione; ma essa conta solo nella misura in cui le sue motivazioni resistono ai metodi "critici". In nessun caso la "tradizione" può essere criterio dell'interpretazione. Presa nel suo insieme, l'interpretazione tradizionale viene considerata come pre-scientifica ed ingenua; solo l'interpretazione storico-critica sembra capace di dischiudere veramente il testo. E infine, è per questa ragione che anche l'unità della Bibbia diviene un postulato superato. Dal punto di vista dell'esegesi storica, ciò che vale per il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, persino per i rapporti interni a ciascun Testamento, è unicamente la discontinuità; non più l'unità.
Da un tale punto di partenza, il compito assegnato dal Concilio all'esegesi - d'essere cioè contemporaneamente critica e dogmatica - appare in sé contraddittorio:essendo queste due richieste inconciliabili per il pensiero teologico moderno. Personalmente sono convinto che una lettura attenta del testo intero della "Dei Verbum" permetterebbe di trovare gli elementi essenziali per una sintesi tra il metodo storico e l'"ermeneutica" teologica. Il loro accordo tuttavia non è immediatamente evidente (9).
Cosi la ricezione post-conciliare della Costituzione ha praticamente lasciato cadere la parte teologica della Costituzione stessa come una concessione al passato, comprendendo il testo unicamente come approvazione ufficiale ed incondizionata del metodo storico-critico. Il fatto che, in questo modo, dopo il Concilio, siano praticamente scomparse le differenze confessionali tra le esegesi cattolica e protestante, lo si può attribuire a tale ricezione unilaterale del Concilio. Ma l'aspetto negativo di questo processo è che, anche in ambito cattolico, lo iato tra esegesi e dogma è ormai totale e che la Scrittura è divenuta anche per essa, una parola del passato che ognuno si sforza a suo modo di tradurre nel presente, senza poter troppo fare affidamento alla zattera su cui è salito. La fede decade allora ad una sorta di filosofia della vita che ciascuno, per quanto gli è dato, cerca di distillare dalla Bibbia. Il dogma, deprivato del fondamento della Scrittura, non regge più. La Bibbia, che si è separata dal dogma, è divenuta un documento del passato; appartiene essa stessa al passato.
2. Il compito
Questa situazione non ha la stessa evidenza ovunque. I metodi non sono sempre applicati in modo cosi radicale; è da molto che si cerca di correggerli. In questo senso, lo sforzo che mira ad una migliore sintesi tra il metodo storico ed il metodo teologico, tra la critica ed il dogma, non è nuovo. D'altronde nessuno potrebbe pretendere che si sia già trovata una convincente visione d'insieme che, da un lato, tenga conto delle innegabili acquisizioni del metodo storico e dall'altro oltrepassi i suoi limiti e si apra ad un'ermeneutica appropriata. Sarà necessario il lavoro di una generazione almeno, per condurre a buon fine una simile impresa. Ciò che segue vuol dunque inserirsi in questo tentativo ed indicare alcuni passi che possono farci progredire su questa strada.
Che la fuga in una sedicente pura letteralità della comprensione scritturistica non serva granché, e che, d'altra parte, la fedeltà soltanto piatta alla Chiesa sia ugualmente insufficiente, non è necessario mostrarlo nei dettagli. Allo stesso modo, non basta ricusare semplicemente delle teorie particolari,segnatamente le più temerarie e dubbie. Ma non può nemmeno soddisfare una posizione tiepida, che cerchi di scegliere caso per caso quale risposta dell'esegesi moderna meglio s'accordi con la Tradizione. Tale circospezione può essere utile, certo, ma non affronta il problema alla radice; e resta arbitraria, se non può rendere intelligibili i propri fondamenti. Per giungere ad una vera soluzione, occorre superare le discussioni sui dettagli e spingersi sino alla radice. Ciò che si mostra necessario, è quel che si potrebbe chiamare una critica della critica; non una critica esercitata dall'esterno, ma una critica che si sviluppi dal suo interno, a partire dal potenziale critico che il pensiero critico possiede.
In altre parole, abbiamo bisogno di un'"autocritica" dell'esegesi storica,che possa prolungarsi in una critica della ragione storica, e che sia dunque continuazione e sviluppo delle critiche kantiane della ragione. Non pretendo certamente di compiere da solo e, per cosi dire, con un colpo di mano un'impresa tanto vasta. Ma occorre cominciare, se non altro con tentativi preliminari di ricognizione in una regione ancora largamente inesplorata. L'autocritica del metodo storico dovrebbe cominciare da una lettura diacronica delle proprie conclusioni; e dovrebbe rinunciare all'apparenza d'una certezza quasi di tipo scientifico naturale, con la quale le sue interpretazioni,fino ad oggi, sono state molto spesso presentate.
Infatti, alla base del metodo storico-critico, si trova lo sforzo di giungere, nell'ambito della storia, ad un grado di precisione metodologica e di certezza analogo a quello che si raggiunge nelle scienze della natura. Ciò che l'esegeta ha determinato una prima volta, non può essere messo in questione che da altri esegeti: ecco la regola pratica che è generalmente presupposta; e la si considera scontata. Ma in questo caso è precisamente il modello che offrono le scienze naturali che dovrebbe condurre ad adottare il "principio d'indeterminazione" di Heisenberg, e ad applicarlo egualmente al metodo storico. Heisenberg ha mostrato che il risultato di un'esperienza data è influenzato sostanzialmente dal punto di vista dell'osservatore, ed anche che il modo di porre questioni e di fare osservazioni agisce sull'evento naturale, modificandolo (10). Ciò vale a maggior ragione per le testimonianze della storia: l'interpretazione non può mai essere una pura riproduzione "del come realmente sono andate le cose".
La parola "inter-pretazione" ci offre un orientamento per giungere alla cosa stessa: ogni esegesi richiede un "inter", un penetrare all'interno,uno stare in mezzo, un prendere parte dell'interprete stesso. Una pura obiettività è un'astrazione assurda. Colui che non prende parte non sperimenta; la partecipazione anzi è il presupposto del conoscere. Solo ci si domanda come può esserci partecipazione senza che l'io soffochi la voce dell'altro, ma che ci sia invece una"intesa" interiore con il passato che renda puro l'orecchio per ascoltare la sua parola (11).
Questo principio che Heisenberg ha formulato per le sperimentazioni nelle scienze naturali esprime uno stato di cose che vale in generale per la relazione soggetto-oggetto. Non si può in modo neutro isolare il soggetto dalla costellazione di cui fa parte. Non si può che tentare di situarlo nella migliore condizione possibile. E ciò è vero a maggior ragione quando si tratta della storia, come già detto, perché i processi fisici si svolgono nel presente e possono essere riprodotti, mentre gli avvenimenti storici sono situati nel passato e non possono essere ripetuti. Inoltre essi portano con sé quel carattere di impenetrabilità e di profondità proprio di ciò che è umano; e dunque, molto più dei fatti naturali, dipendono dall'atteggiamento del soggetto che li percepisce. Ma come si può giungere a scoprire tutto ciò che entra nell'orizzonte del soggetto? Occorre introdurre a questo punto ciò che ho già chiamato"approccio diacronico dei risultati dell'esegesi". Dopo quasi duecento anni di lavoro storico-critico sui testi, non si può più leggerne i risultati solo a due dimensioni; li si deve vedere in prospettiva, in collegamento con la loro propria storia.
Dal che diviene chiaro che una tale storia non è semplicemente quella di un progresso che va da risultati imprecisi verso altri sempre più precisi ed obiettivi. Essa appare piuttosto e principalmente come una storia di costellazioni soggettive, i cui cammini corrispondono esattamente agli sviluppi della storia dello spirito, e che a loro volta si riflettono nel modo di reinterpretare i testi. Nella lettura diacronica dell'esegesi, i presupposti filosofici di questa si manifestano da sé. Allora, a distanza, l'osservatore si rende conto con sorpresa che queste interpretazioni, che si supponevano cosi rigorosamente scientifiche e puramente "storiche",riflettono in realtà lo spirito dei loro autori piuttosto che lo spirito delle epoche del passato. Ciò non deve condurre l'esegeta allo scetticismo, ma piuttosto invitarlo a riconoscere i propri limiti e a purificare il suo metodo.