Gli studenti di sociologia hanno un privilegio che dovrebbero particolarmente apprezzare. Quotidianamente la loro attenzione è attirata sul problema del conflitto fra narrative. Questa attenzione dovrebbe permettere loro di conquistare la più rara fra le libertà, la libertà dalla carta stampata e dalle manipolazioni – volontarie o involontarie – dei mezzi di comunicazione sociale. Nei suoi termini più semplici, il problema del conflitto fra narrative è ovvio. Tre persone assistono a un incidente stradale: quando si tratterà di testimoniare, ognuno lo racconterà in modo diverso. Quattro giornali danno notizia della stessa manifestazione politica: se li si mette l’uno accanto all’altro, sembra che si tratti di manifestazioni diverse. Normalmente i giornali non sono d’accordo fra loro sul numero dei partecipanti, sul successo della manifestazione, sulla capacità degli oratori di esprimersi in modo più o meno brillante. Il problema del conflitto fra narrative è molto complesso, e va al di là della banale osservazione secondo cui i giornalisti – nel riferire avvenimenti politici – sono condizionati dalle loro opinioni. Per comprenderne esattamente le dimensioni, dobbiamo percorrere un itinerario che prevede quattro passaggi.
a. Anzitutto – è il passaggio più evidente – il linguaggio umano è plastico, malleabile e permette di affermare la stessa cosa con accentuazioni diverse. Se in Italia vi sono circa seicentomila appartenenti a nuovi movimenti religiosi in senso stretto, si potrà riferire la notizia dichiarando che i membri delle "sette" in Italia sono addirittura seicentomila o, al contrario, soltanto seicentomila, poco più dell’uno per cento della popolazione. Come tutti sanno un critico teatrale, secondo l’atteggiamento e l’umore, può definire lo stesso teatro "pieno a metà" oppure "mezzo vuoto". L’esempio del teatro è più semplice di quello relativo agli aderenti ai nuovi movimenti religiosi, dove un gran numero di fattori può influenzare la scelta del linguaggio. Un avversario delle "sette", per esempio, potrà avere interesse in un certo contesto a generare allarme sociale presentando il numero degli aderenti come estremamente significativo e minaccioso. In un altro contesto preferirà attirare l’attenzione sul carattere relativamente modesto delle stesse cifre, per dimostrare che il pubblico non ritiene le "sette" credibili e di fatto le condanna all’insuccesso. La stessa scelta delle parole – che diventano facilmente vettori di emozioni profonde – non è neutrale. Se si vuole passare da un linguaggio neutro o pacato a uno emotivo si parlerà, anziché di "membri" di "nuovi movimenti religiosi" o di "minoranze religiose", di "adepti" o "vittime" delle "sette".
b. Nel primo passaggio il conflitto fra narrative si è manifestato nella sua forma più semplice. Gli agenti sociali che producono le narrative diffondono sostanzialmente la stessa narrativa: metà delle sedie di un teatro erano occupate; gli appartenenti a nuovi movimenti religiosi in Italia sono seicentomila. Cercano solo di suscitare nei loro ascoltatori reazioni diverse, modulando opportunamente il linguaggio. La situazione è diversa se leggiamo su un giornale che a una manifestazione hanno partecipato trecentomila persone, e su un altro quotidiano che i partecipanti erano un milione. L’esempio non è teorico, se si pensa semplicemente a manifestazioni politiche italiane del 1996, dalla cosiddetta proclamazione dell’indipendenza della Padania alla protesta del centro-destra contro la politica finanziaria del governo. Così, possiamo leggere cifre in libertà a proposito – per esempio – dei satanisti di Torino. Secondo gli specialisti sono meno di duecento, secondo certi articoli di stampa decine di migliaia. È ormai accertato che il riferimento a quarantamila satanisti torinesi deriva da un pesce d’aprile di successo organizzato da un gruppo di universitari goliardi parecchi anni fa; paradossalmente, l’incredibile cifra è spesso ripetuta ancora oggi. Qui cominciamo ad avvicinarci a dimensioni più profonde del conflitto fra narrative. Un esame delle narrative in termini di "vero" e di "falso" non è, naturalmente, irrilevante. Nel caso classico dei partecipanti a una manifestazione politica, chi la organizza ha evidentemente interesse ad accrescere il numero dei presenti, e gli avversari politici hanno buone ragioni per diminuirlo. Non si tratta, tuttavia, dell’unico elemento che entra in gioco. Può darsi, per esempio, che i termini non siano stati definiti esattamente: fra i "partecipanti" alla manifestazione si devono ricomprendere anche i semplici curiosi, che – per così dire – passavano di lì per caso? Come definire precisamente i membri delle "sette" o "nuovi movimenti religiosi"? Quando si contano i testimoni di Geova, si tratta solo dei "proclamatori" che vanno di porta in porta o di tutta la comunità, bambini compresi? Inoltre – anche se siamo d’accordo sulle definizioni – gli strumenti con cui sono rilevati i dati influenzano i risultati. I sociologi conoscono bene questa problematica perché lavorano spesso tramite questionari. Quanti sono gli italiani che credono nella reincarnazione? Se si pone la domanda in forma "chiusa" – com’è stato fatto in un’indagine recente – chiedendo di scegliere in modo univoco fra reincarnazione e risurrezione cristiana, i reincarnazionisti italiani sono soltanto il quattro per cento (19). Viceversa, se il quesito è posto in modo "aperto", e chi è interrogato può rispondere affermando di credere sia alla reincarnazione sia alla risurrezione cristiana, la percentuale sale oltre il venti per cento, in Italia come in numerosi altri paesi europei (20). Le scienze fisico-matematiche sanno da molti anni che il punto di vista dell’osservatore influenza i risultati dell’osservazione. Questo è evidentemente vero anche per le scienze sociali.
c. È necessario compiere un terzo passo del nostro itinerario. Fino a questo momento abbiamo esaminato narrative molto semplici, che rispondono alla domanda: "Quanto?": "Quante persone hanno partecipato alla manifestazione?", "Quanti sono i testimoni di Geova in Italia?", e così via. Il conflitto fra narrative si fa molto più complesso quando si aggiungono elementi di tipo qualitativo. Se dalla domanda "Quanti sono i testimoni di Geova?" si passa a quesiti del tipo "In che cosa credono i testimoni di Geova?", "Qual è l’esperienza quotidiana dei testimoni di Geova?", qualunque tipo di risposta si presenta nella forma di una narrativa che deve sintetizzare un gran numero di osservazioni. Come si è visto, anche la risposta a un semplice quesito di carattere puramente quantitativo è influenzata dal punto di vista dell’osservatore. Le risposte a quesiti complessi non sono prodotti sociali banali. Sono condizionate da un gran numero di varianti che si riferiscono sia all’osservatore e alle sue capacità, motivazioni, pregiudizi, sia al contesto sociale in cui si trova a operare. Dipendono pure dal numero e dal tipo di osservazioni che è riuscito a effettuare. Evidentemente, infatti, nessuno studioso dei testimoni di Geova conosce tutti gli oltre nove milioni di membri di questo movimento che esistono al mondo, e tanto meno le loro singole, individuali opinioni. Certo, per sapere che cosa pensa un movimento religioso si potrà fare riferimento alla sua letteratura "ufficiale". Ma molto spesso accanto alla letteratura pubblica ne esiste una non pubblica, tanto più nei movimenti che presentano elementi di tipo iniziatico o esoterico. Capita anche che l’esperienza religiosa quotidiana sia influenzata da fattori diversi, e si discosti in modo notevole dai princìpi contenuti in scritture sacre che spesso risalgono a secoli passati. Per conoscere l’esperienza religiosa quotidiana di una qualunque denominazione cristiana dei nostri giorni non è certamente sufficiente la lettura del Vangelo. In altre parole, le narrative di fenomeni complessi – quali sono, per esempio, i movimenti religiosi contemporanei – non sono "fotografie", ma costruzioni sociali articolate, culturalmente condizionate e politicamente negoziate. Il problema è noto agli storici, i quali sanno – per riprendere il titolo di un’opera particolarmente influente di Peter Novick, pubblicata nel 1988 – che la storia "obiettiva" è un "nobile sogno" che riposa su un pregiudizio di carattere oggettivistico. Peter Novick non è un relativista: i fatti storici per lui esistono, è la storiografia a presentarsi come un prodotto sociale condizionato da una molteplicità di fattori (21).
Anche per quanto riguarda il problema del conflitto fra narrative, il movimento anti-sette pensa che la soluzione risieda nella vecchia distinzione fra creed e deed. Si dovrebbe cioè distinguere fra credenza – la cui ricostruzione sarebbe sempre incerta e soggettiva – e comportamento, che potrebbe invece essere "fotografato" e descritto in modo certo. In realtà, come abbiamo già potuto verificare a proposito della problematica giuridica relativa alla libertà religiosa, questa distinzione è fattualmente impossibile. I tribunali, i governi, i lettori di giornali non si trovano di fronte a comportamenti "puri", anche nell’ipotesi che questi ultimi esistano. Incontrano narrative complesse che nascono dalla dialettica fra l’osservazione di un comportamento e le infinite variabili che condizionano il punto di vista dell’osservatore. D’altro canto, è impossibile comprendere un comportamento senza leggerlo in un contesto di tendenze, motivazioni, credenze e premesse che lo ispirano. Nel racconto Il vampiro del Sussex, Sherlock Holmes – e i lettori – si trovano di fronte a narrative il cui oggetto è una donna che è stata vista succhiare il sangue del figlio. Se il celebre detective – come gli stolti che, nel racconto, lo circondano – erigesse una muraglia invalicabile fra il comportamento e il suo contesto, fra deed e creed, e dichiarasse di interessarsi soltanto del primo, farebbe rapidamente arrestare la donna come madre snaturata dedita ad abominevoli pratiche di vampirismo. Ma Sherlock Holmes procede diversamente. Indaga, colloca il comportamento nel suo contesto e scopre che la madre ha succhiato il sangue del figlio per impedirgli di morire avvelenato. Inoltre non ha spiegato le sue azioni per non compromettere l’avvelenatore, un altro membro della famiglia (22). Non sarebbe sufficiente, in questo caso, affermare – come farebbe un positivista "moderato" – che, quando si esaminano i comportamenti, occorre anche tenere conto delle loro motivazioni. Anzitutto, infatti, il positivista dovrebbe spiegarci come pensa di poter conoscere le motivazioni: per il credente solo Dio conosce veramente i segreti dei cuori, per il positivista questi sono – ultimamente – inconoscibili. In secondo luogo l’espressione "motivazioni" è riduttiva per indicare tutto quanto circonda un gesto o un comportamento. La storia del vampiro del Sussex presenta una struttura relativamente semplice se la si paragona, per esempio, alle narrative che dovrebbero trasmetterci il significato globale delle attività di un gruppo sociale o di un movimento religioso. Nell’avventura di Sherlock Holmes il problema non consiste soltanto nel fatto che la donna, succhiando il sangue del figlio, cerca di salvarlo e non di danneggiarlo. Soltanto indagando sulle malsane condizioni della famiglia della donna, l’investigatore scopre perché questa abbia scelto un modo discreto di salvare il figlio anziché cercare aiuto altrove. Non solo: è soltanto il retroterra etnico sudamericano della povera madre che permette a Sherlock Holmes di capire perché si è servita di un modo così originale per risolvere una situazione critica.
Quello del vampiro del Sussex è un caso giudiziario ipotetico e letterario; ma le cose non vanno diversamente nei tribunali veri. Nel caso Yoder del 1972 la Corte Suprema americana non si è limitata a chiedersi perché i genitori amish non inviano i loro figli agli ultimi anni della scuola dell’obbligo. Ha inserito il loro comportamento nel contesto più ampio delle "caratteristiche uniche della fede amish". In questo caso – come in altri decisi dalla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America in base al principio del compelling interest – non abbiamo né una separazione rigida fra deed e creed, né una semplice indagine sui motivi. Ci troviamo di fronte alla scelta – fra diverse narrative possibili di un episodio – di una narrativa che, inserendolo in un contesto complesso, permette di considerare lecito un comportamento che in astratto sarebbe illecito. In paesi diversi dagli Stati Uniti d’America la consapevolezza di questo modo di procedere è spesso minore. Ma nessuno può seriamente negare che le decisioni dei tribunali non rispondono meccanicamente a "fotografie" univoche di comportamenti come potrebbe fare un computer. Scelgono fra le varie narrative che sono presentate ai giudici in una situazione che è fortemente influenzata da condizionamenti culturali, sociali e politici. In materia di nuovi movimenti religiosi vi è, semmai, negli Stati Uniti d’America una maggiore consapevolezza – rispetto all’Europa e al Giappone – dell’estrema complessità dei problemi che riguardano la religione. Nel sistema giudiziario statunitense i "testimoni esperti" – expert witnesses – citati dalle parti permettono ai giudici – e alle giurie, dove sono presenti – di trovarsi di fronte a un gran numero di narrative diverse. È fatto loro obbligo, naturalmente, di dichiarare se e da chi ricevono un onorario, e di rispettare le regole deontologiche della loro professione. Una corte che deve pronunciarsi, per esempio, sulla Scientologia ascolterà così – sulle stesse attività – i resoconti diversi di membri soddisfatti, di militanti dei movimenti anti-sette, di ex membri ostili, di psichiatri di vario orientamento, di specialisti accademici, e così via. Lo stesso avviene normalmente in occasione di indagini parlamentari, come quella recente sui fatti di Waco. I poteri pubblici e i tribunali – che non hanno, normalmente, una competenza specifica in materia di movimenti religiosi – potranno avvicinarsi a una comprensione – sempre e in ogni caso difficile ed elusiva – di questi fenomeni mediando fra le varie narrative.
In Europa la situazione è molto più confusa. La principale critica metodologica che si può rivolgere al rapporto parlamentare francese Les Sectes en France è precisamente quella di non aver mediato fra le narrative di eventi di cui i membri della commissione non potevano avere conoscenza diretta. Il rapporto ha invece privilegiato le narrative degli ex membri ostili e dei militanti anti-sette, su cui il documento è fondato in modo pressoché esclusivo. Secondo una critica frequente e mai smentita, della lista dei testimoni ascoltati dalla commissione – peraltro in segreto – non faceva parte neppure un solo specialista universitario di scienze religiose (23). Lo stesso rischia di avvenire in altri contesti europei, e si verifica anche nei tribunali.
Un esempio particolarmente interessante è costituito dal processo a un gruppo di scientologi che si è tenuto a Lione nell’ottobre del 1996. In astratto si potrebbe ritenere che questo processo – secondo un modello più francese che americano – avrebbe dovuto occuparsi esclusivamente degli specifici reati di cui erano accusati alcuni singoli scientologi, e non della Scientologia in generale. Se però si legge la sentenza – sul cui merito, quanto ai singoli imputati e alle loro responsabilità, non è mia intenzione entrare in questa sede – ci si accorge che non è affatto così. Questa sentenza (24) comprende un ampio "secondo capitolo" dove sono ricostruite la dottrina e le "tecniche" della Scientologia. Il Tribunale di Lione – che fra l’altro afferma, in grassetto, che la libertà religiosa trova i suoi limiti "nell’interesse dell’ordine pubblico" (25) e i cui giudici non sono, evidentemente, specialisti di nuovi movimenti religiosi – ha, certo, citato anche pubblicazioni della stessa Scientologia. Ma ha ricostruito la natura e il funzionamento del movimento utilizzando pressoché esclusivamente – fra le diverse narrative possibili – quelle che provengono da due fonti: gli ex membri ostili e i militanti anti-sette. La sentenza cita ampiamente la perizia di uno psichiatra francese che è uno dei più attivi militanti anti-sette del paese. Non manca di fare riferimento anche al rapporto parlamentare Les Sectes en France per concludere che la Scientologia "presenta le caratteristiche scelte dalla Commissione [parlamentare] per attribuirle questa qualifica [di setta]" (26). Il Tribunale di Lione non si è affatto limitato a esaminare i singoli reati di cui erano accusati alcuni singoli scientologi, ma – e difficilmente avrebbe potuto fare altrimenti – ha inserito questi "comportamenti" in un contesto globale che implica una valutazione complessiva della Scientologia. In astratto sarebbe stato possibile arrivare a questa valutazione attraverso il metodo della mediazione fra le narrative. La difesa della Scientologia aveva chiamato come testimoni alcuni eminenti sociologi europei, specialisti fra i più noti dei nuovi movimenti religiosi – come i professori Bryan R. Wilson e Karel Dobbelaere –, e anche il sottoscritto. Ma il clima giuridico e culturale francese è ben diverso da quello statunitense, dove in un processo simile il confronto fra narrative sarebbe stato il tema centrale, e l’audizione di specialisti universitari sarebbe stata data per scontata. Il tentativo degli specialisti di scienze sociali di offrire una narrativa diversa rispetto a quella dei militanti anti-sette o degli ex membri ostili è stato attaccato dalla stampa come se fosse una presa di posizione acritica in favore della Scientologia, anche se diversi sociologi ascoltati come testimoni hanno dichiarato di essere personalmente in disaccordo con le dottrine e le pratiche del movimento (27). E il Tribunale ha considerato queste testimonianze irrilevanti, neppure menzionandole nella sentenza.
È necessario, a questo proposito, evitare alcuni equivoci in cui è facile cadere. Anzitutto, gli specialisti universitari non pretendono affatto un monopolio del sapere in materia di nuovi movimenti religiosi. I sociologi, in particolare, sono certamente capaci di applicare a sé stessi il loro metodo, e di "esaminare la loro stessa funzione nel processo di costruzione del sapere in materia di nuovi movimenti religiosi dal punto di vista della sociologia della conoscenza" (28). Gli specialisti universitari costituiscono, nel loro insieme – e senza trascurare il fatto che nel loro mondo coesistono opinioni diverse –, una delle diverse agenzie che producono narrative in tema di nuovi movimenti religiosi. Certamente anche le loro teorie sono culturalmente condizionate, se non altro dal desiderio di "proteggere il proprio campo professionale" contro le intrusioni di militanti dilettanti che propongono "un’ideologia che cerca di mascherarsi da scienza", il che normalmente disturba gli accademici (29). Certo, si potrà ritenere che le narrative degli specialisti universitari che osservano e descrivono i nuovi movimenti religiosi con una specifica professionalità debbano essere prese in considerazione con particolare attenzione. Allo stesso modo – confrontando narrative diverse a proposito dei problemi che riguardano i nostri denti – si potrà ritenere particolarmente interessante l’opinione dei dentisti. Ma – in un contesto dove si tende semmai a insistere sul fatto che anche l’esperto non è immune da condizionamenti culturali e professionali – sarebbe certamente sbagliato affidarsi unicamente alle narrative che provengono dagli specialisti universitari di scienze religiose, né essi avanzano pretese monopolistiche di questo genere.
D’altro canto, è ancora più sbagliato affidare un ruolo privilegiato – o addirittura esclusivo – alle narrative degli ex membri ostili di un movimento religioso. Anzitutto, i nuovi movimenti religiosi hanno normalmente un enorme turnover. Assomigliano a grandi stazioni, dove vi è sempre qualcuno, perché – se molti viaggiatori arrivano – altri partono. Gli ex membri di nuovi movimenti religiosi sono, pertanto, milioni. Devono essere studiati nel loro insieme, senza concentrarsi sulla piccola minoranza di qualche centinaio di persone che brucia gli idoli che un tempo aveva adorato e s’impegna attivamente nei movimenti anti-sette. La maggioranza delle persone che lascia un nuovo movimento religioso rifluisce tranquillamente nella società – o si cerca un’altra fede –, senza intraprendere alcuna iniziativa polemica nei confronti del gruppo che ha lasciato. Gli ex membri ostili possono talora offrire narrative interessanti – e il loro tormentato itinerario umano merita comunque rispetto –, ma hanno evidentemente buone ragioni per spiegare con "storie di atrocità" scelte del loro passato che oggi giudicano aberranti (30). È del tutto mitologico ritenere che gli specialisti universitari di scienze religiose si disinteressino dei resoconti degli ex membri ostili. Tutti gli studi monografici di livello universitario su questo o quel movimento ne tengono conto. Ma li trattano con circospezione e non li considerano una fonte privilegiata né unica. In realtà, qualunque specialista ha intervistato, durante la sua carriera, decine o centinaia di ex-membri di nuovi movimenti religiosi, alcuni ancora disponibili a esprimere simpatia per il movimento che hanno lasciato, altri indifferenti oppure ostili. Uno dei miti meno fondati che fa da sfondo al conflitto fra narrative in materia di nuovi movimenti religiosi è quello secondo cui gli specialisti accademici ne avrebbero un’esperienza "teorica", mentre gli attivisti anti-sette avrebbero un sapere "pratico", ultimamente più utile. Non è affatto così, perché gli studiosi accademici – se sono autentici specialisti di questo settore – hanno normalmente intervistato centinaia di persone sia fra i membri sia fra gli ex membri, e hanno anche trascorso qualche tempo all’interno dei movimenti. Le informazioni degli attivisti anti-sette, invece, vengono normalmente solo dagli ex membri, dai testi scritti e, talora, da qualche rapida osservazione sotto mentite spoglie, generalmente non molto produttiva.
Da questo punto di vista l’esperienza degli specialisti universitari è molto più "pratica" di quella degli attivisti anti-sette. Questi ultimi obiettano che l’osservazione partecipante non serve a nulla, perché le "sette" fanno vedere all’ingenuo specialista soltanto quello che vogliono. Commenti di questo genere possono essere formulati soltanto da chi non sa neppure che cosa sia l’osservazione partecipante. Certo, esistono segreti di natura criminale all’interno di movimenti religiosi – e non religiosi – che l’osservatore sociologico non scopre. Di solito non li scopre neppure l’attivista anti-sette, né sono noti all’ex membro ostile di basso livello. È il caso delle attività di alcuni dirigenti della Aum Shinri-kyo giapponese relative al traffico di droga e di armi chimiche. Se si eccettuano questi casi limite, lo specialista che trascorre non soltanto qualche ora, ma settimane o mesi frequentando regolarmente un movimento, ne condivide la vita e stringe una rete di rapporti personali con un certo numero di membri, i quali non parlano necessariamente in termini positivi gli uni degli altri. Di solito finisce per accumulare un numero di informazioni veramente ampio, e non tutte favorevoli, sul gruppo che osserva. Forse citare un esempio personale non è di buon gusto. Mi chiedo tuttavia quanti attivisti anti-sette conoscessero le pratiche di magia sessuale di tutta una serie di gruppi occultisti e satanisti prima di averle viste descritte nei miei volumi Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici dallo spiritismo al satanismo e Indagine sul satanismo. Satanisti e anti-satanisti dal Seicento ai nostri giorni. Sono volumi da cui attingono a piene mani, spesso dimenticandosi di citare la fonte (31). Mi chiedo pure quanti detrattori di The Family – il movimento un tempo noto come Bambini di Dio – conoscerebbero la dinamica esatta delle pratiche sessuali più controverse e aberranti che avevano corso presso i Bambini di Dio fino a qualche anno fa se non avessero letto gli studi di J. Gordon Melton. Gli stessi detrattori criticano J. Gordon Melton per la sua fiducia – peraltro confermata da sentenze di tribunali di tutto il mondo – nei reali cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi anni in The Family. Questi esempi non dimostrano forse che lo specialista – il quale, naturalmente, ha i suoi limiti – vede, nell’osservazione partecipante, quello che è capace di vedere, non soltanto quello che il movimento vuole che veda? Certo, l’osservazione partecipante non è un metodo che permette di scoprire tutto su un movimento: un tale metodo, semplicemente, non esiste. Ma attraverso l’osservazione partecipante si acquista su una determinata realtà un sapere molto più "pratico" e completo di quello che emerge dal semplice ascolto delle narrative degli ex membri, o dalla semplice lettura di fonti scritte, senza che questi due ultimi elementi debbano essere, peraltro, trascurati.
d. Vi è, infine, un quarto passo che è necessario compiere per evitare equivoci pericolosi. La realtà esiste. L’idealismo e il relativismo sono errori filosofici che si confutano da soli (32). La conoscenza perfetta di un fenomeno complesso non è accessibile agli uomini. Tuttavia è possibile costruire "modelli", "figure" o "narrative" che hanno un rapporto più o meno accettabile di analogia con la realtà (33). L’analogia – non una presunta corrispondenza "fotografica" – con la realtà diventerà uno degli elementi per valutare il modello insieme alla fecondità scientifica, alla capacità di chiarire e di spiegare, alla coerenza interna. Il relativista ha – paradossalmente – ragione quando denuncia la "fallacia naturalistica" secondo cui esisterebbe una narrativa "vera" in grado di fotografare perfettamente la realtà e di stabilire con il reale un rapporto di identità (34). Il relativista, tuttavia, ha torto quando lascia intendere che tutte le narrative sono di uguale valore. Il sapere umano – e anche le esigenze della semplice convivenza fra gli uomini – si basano sulla continua ricerca di narrative, di modelli e di figure che spieghino e che chiariscano meglio il fenomeno a cui si riferiscono, e il cui rapporto di analogia con il reale sia meno lontano dall’identità, peraltro irraggiungibile.
Le narrative non nascono nel vuoto: sono costruzioni sociali continuamente negoziate dal punto di vista culturale e, lato sensu, politico. La libertà di fronte alle narrative – che insegna a non darne nessuna per scontata, per quanto sembri autorevole la carta su cui è stampata – costituisce una grande ricchezza soggettiva, e un autentico dono che si può acquistare tramite una buona formazione nelle scienze sociali. Perché questa libertà si rifletta e sia garantita anche sul piano oggettivo, è necessario che i poteri pubblici – le agenzie governative, la magistratura e i parlamenti – svolgano, su terreni delicatissimi come quello dei nuovi movimenti religiosi, una funzione di mediatori fra narrative diverse. Questa funzione è tradita – e la libertà, anche in questo caso, si riduce a una larva o a un fantasma – se una commissione parlamentare, un ministero o un tribunale decidono di fare propria, presentandola come "vera", una delle narrative che si confrontano e si contrappongono, ignorando le altre. È quanto avviene quando un’agenzia governativa, un gruppo di parlamentari o una corte di giustizia ricostruiscono la problematica dei nuovi movimenti religiosi in genere – o di un movimento in particolare – servendosi esclusivamente – qualche volta ostentatamente – della narrativa elaborata dagli ambienti anti-sette e dagli ex membri ostili. Ignorano così le altre narrative, che provengono dagli specialisti universitari, dagli ex membri non ostili e da chi rimane nei movimenti dichiarandosi soddisfatto (35). La situazione è complicata dal fatto che qualche volta certi uomini politici – e certi giornalisti – impegnano la loro credibilità nel sostegno alla narrativa che hanno scelto. La avvertono come loro e aggrediscono chi ha opinioni diverse – in particolare gli specialisti accademici – con espressioni che si vergognerebbero di usare in una normale conversazione fra amici, in nome della semplice buona educazione. Gridare, tuttavia, non risolve i problemi. Di fronte a un conflitto, la libertà è garantita soltanto se i poteri pubblici rinunciano a sposare una delle narrative contrapposte, imparano a riconoscerle tutte come culturalmente condizionate e svolgono la loro funzione propriamente politica, che è di mediazione. Nella controversia sulle "sette" la libertà diventa un fantasma se i poteri pubblici – di fronte al conflitto fra le narrative – non si pongono come arbitri, ma come parti.
[URL=]http://www.cesnur.org/2001/archive/mi_fantasma.htm