Esperienza di Carlos San Jose (Svegliatevi! 22/2/82, pag. 16-21 - CLICCA PER VISUALIZZARE
Cercavamo la gloria sul ring
ERA il 21 gennaio 1966. Seduto sullo sgabello in un angolo del ring, mi sentivo ormai vicino alla gloria e alla ricchezza. Non dovevo far altro che vincere questo incontro e io, Francisco San José, sarei stato proclamato campione spagnolo dei pesi massimi. Il passo successivo sarebbe stato il campionato europeo.
I miei pensieri furono bruscamente interrotti dal suono del gong e il primo round cominciò. Il mio avversario, Mariano Echevarría, aveva ovviamente le stesse ambizioni, e ingaggiammo un duro combattimento che durò 12 riprese. Eravamo forti entrambi e fu una lotta senza quartiere. Quel giorno diventai il campione spagnolo dei pesi massimi, ottenendo la vittoria ai punti.
Da ragazzo, nella mia città di Toro, nella provincia di Zamora, nella Spagna nordoccidentale, ero noto perché facevo a pugni per strada. Pur avendo studiato in un collegio cattolico, ciò che imparai non mi cambiò. Finita la scuola intrapresi una vita sfrenata e immorale.
Col tempo mi innamorai di una ragazza del posto, ma lei non mi voleva se non cambiavo vita. Feci qualche cambiamento, ma volevo sempre fare a pugni. Dato che il solo modo legale e “nobile” era il pugilato, cominciai a tirare di boxe. Nel 1963 rappresentai la Spagna ai Giochi del Mediterraneo disputati in Italia, a Napoli, e vinsi una medaglia di bronzo. Ma invece di qualificarmi per le Olimpiadi di Tokyo dell’anno dopo, decisi di passare al professionismo. Dopo tutto, pensai, se correvo dei rischi era giusto che ci guadagnassi anche finanziariamente.
Ma dove mi portò tutto questo? Sei mesi dopo che avevo vinto il titolo spagnolo dei pesi massimi, il mio rivale, Echevarría, mi batté in sei riprese. Non ero più il campione. Nei successivi 4 anni disputai 23 incontri, ne vinsi 11, ne persi 9 e ne terminai tre alla pari. A poco a poco mi resi conto di essere manovrato dagli organizzatori e dai manager per favorire la carriera di altri. Nel 1969 un cronista sportivo mi definì un “capro espiatorio”. Poiché avevo bisogno di soldi, in due occasioni mi prestai a ciò che in spagnolo si chiama tongo, cioè un incontro truccato. Quando nel 1967 rifiutai di cooperare in qualcosa del genere, l’arbitro fece in modo che perdessi. Alla fine capii che in molti casi i campionati sono decisi negli uffici degli organizzatori e non sul ring.
Al principio della carriera persuasi il mio fratello minore, Carlos, a tentare la strada del pugilato. Ecco il suo racconto:
Mentre Francisco aveva successo come pugile dilettante, io vincevo alle corse campestri. Ma ero spinto a guardare e seguire l’esempio di Francisco.
Un giorno del 1963 Francisco arrivò a casa e annunciò che mi aveva combinato il primo incontro. Con l’approvazione della Federazione Pugilistica di Valladolid dovevo combattere contro un pugile di nome Sanchez nella nostra città. Ero nervoso, ma non potevo deludere i miei concittadini. Vinsi per k.o. alla seconda ripresa. Trascinata dall’entusiasmo la folla mi sollevò in alto e mi portò in giro per la città. Il successo mi andò alla testa. Assaporata la vittoria, fui preso dalla febbre della boxe e anch’io cominciai a sognare di diventare famoso e ricco sul ring.
Mi trasferii a Madrid per allenarmi e fare gli incontri giusti. Nel 1965, e di nuovo l’anno successivo, divenni il campione spagnolo dei dilettanti nella mia categoria di peso. Fui scelto per far parte della squadra nazionale spagnola che avrebbe combattuto contro la Francia, e a livello regionale contro squadre in Germania e Portogallo. Tutti questi incontri dilettantistici furono trampolini di lancio per la carriera professionistica.
Alla fine giunse il giorno lungamente atteso: il 23 novembre 1966. Debuttai come professionista a Madrid contro Ben Bachir. Vinsi per k.o. Allora non sapevo che anni dopo avrei incontrato Ben Bachir in circostanze molto diverse. Ora una serie di avversari di varie nazioni cadevano sotto i miei pugni; alcuni perdevano per k.o. e altri ai punti. Ma il combattimento che mi sarebbe rimasto più impresso fu quello disputato il 30 dicembre 1969 contro Bernard Daudu, un esperto pugile nigeriano.
Sebbene fuori del ring fossi una persona tranquilla e riservata, cominciato l’incontro mi trasformavo in un selvaggio picchiatore, deciso solo a mettere il mio rivale fuori combattimento. Ricordo le parole di un allenatore ai tempi in cui ero un dilettante: “Quando sali sul ring ricorda che devi finire l’avversario in qualsiasi modo. Vacci col cuore pieno d’odio e fallo a pezzi. È il tuo nemico. Non avere pietà di lui”.
Man mano che l’incontro procedeva i miei colpi non andavano a segno. La folla si fece impaziente. Volevano il sangue. Era un incontro in otto riprese e ne rimaneva solo una. Ero nell’angolo e il mio secondo mi diede un frettoloso consiglio: “Finiscilo in questo round altrimenti perderai l’incontro!” Sentii il sangue salirmi alla testa e al suono del gong mi scagliai pieno di furore e di odio. All’improvviso, a circa metà ripresa, gli sferrai un gancio sinistro alla mascella, seguito da un destro al fegato. Cadde sulle corde e lo colpii di nuovo. Perse per k.o.”.
Terminate le brevi formalità della vittoria, lasciai in fretta il ring, mi cambiai d’abito e presi il treno per Bilbao. Al mio arrivo alla stazione c’erano ad accogliermi mia moglie e mia sorella, che però apparivano tese. Cos’era successo? Mi diedero la notizia: Daudu era morto per un’emorragia cerebrale!
È difficile descrivere ciò che provai a quella notizia. Piansi a lungo e amaramente. Non potevo credere di avere causato la morte di un uomo coi miei pugni.
Ma com’è strana la natura umana! Com’è facile razionalizzare! Trovai subito delle scuse per giustificarmi e per continuare a fare del pugilato. Altri che erano interessati alla mia carriera mi diedero questi consigli: “È stato un incidente. La boxe è uno sport. Non è stata colpa tua. Probabilmente il danno era stato causato nell’incontro precedente”. “Ora è il momento di sfruttare la fama che ti sei fatto”. Ma nel mio profondo intimo, non ero soddisfatto. Sapevo che la boxe l’aveva ucciso, ma io ero stato il giustiziere che aveva inflitto il colpo di grazia.
Tre mesi dopo ero di nuovo sul ring, a Madrid. Alla TV mi chiesero cosa pensavo della mia carriera dopo il tragico episodio. Risposi che ero deciso a continuare.
Le vittorie si susseguirono finché il 25 dicembre 1970 ebbi la mia grande occasione: l’incontro per il titolo spagnolo dei welter pesanti. Il luogo: Bilbao, nella provincia di Vizcaya. Il mio avversario: José Maria Madrazo, un esperto. Ma io ero più giovane e più forte, e al sesto round lo mandai due volte al tappeto. Le stava prendendo, così alla fine l’arbitro interruppe il combattimento e mi assegnò la vittoria per k.o. tecnico. Finalmente avevo eguagliato quello che mio fratello aveva fatto quattro anni prima: ero diventato campione spagnolo.
Ma oltre un anno prima che io conseguissi questa meta, mio fratello Francisco si era ritirato dal pugilato. Perché? Lasciamolo dire a lui.
Mi consideravo più ateo che cattolico, ma quando i testimoni di Geova mi visitarono ero curioso di sapere in cosa credevano. Ne ammiravo il coraggio. Erano ovviamente sinceri. Anche se non credevo a tutto quello che insegnavano, mi interessava conoscere e capire la Bibbia. Con il settimanale aiuto dei Testimoni, studiai la Bibbia insieme al libro La Verità che conduce alla Vita Eterna. I Testimoni non menzionarono mai la boxe. Ma quando studiammo il capitolo XIV, intitolato “Come si identifica la vera religione”, compresi che il principale segno che distingue il cristiano è l’amore. Appresi che Gesù aveva detto: “Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore fra voi”. (Giov. 13:35) Il libro proseguiva dicendo: “Deve essere amore che influisca profondamente su ogni aspetto della vita quotidiana”. Nel mio caso, era inclusa la boxe.
Era stato organizzato un incontro speciale. Mio fratello Carlos ed io dovevamo apparire nello stesso programma, San José I e San José II, i nostri nomi da professionisti. Meditai a lungo sulla mia situazione e pregai Dio di guidarmi. Dovevo e potevo continuare a fare il pugile e chiamarmi cristiano? Dopo un profondo esame di coscienza decisi che l’incontro che avrei disputato il 17 ottobre 1969 nell’Arena di Bilbao sarebbe stato l’ultimo.
Quando annunciai alla stampa il mio ritiro dal ring per motivi religiosi, la cosa fece molto scalpore. Carlos non poteva credere che quattro mesi di studio biblico avessero prodotto in me un simile cambiamento. I miei “amici” nel mondo della boxe tentarono di farmi tornare sulla mia decisione. Mi offrirono l’opportunità di concorrere per il titolo europeo, con una grossa borsa in palio. Pur avendo bisogno di denaro, rimasi fermo nella mia decisione.
Andai a vivere con la famiglia nella mia città nativa di Toro, dove ho sin d’allora disputato un diverso tipo di combattimento, la corsa cristiana. La verità della Bibbia ha cambiato la mia personalità. Per illustrare quello che voglio dire, qualche tempo fa stavo facendo visite di casa in casa per parlare della Bibbia quando un tipo robusto minacciò di buttarmi giù dalle scale. In passato questo mi sarebbe bastato per stenderlo con un paio di montanti alla mascella. Invece lo dissuasi dalle sue cattive intenzioni e conclusi la conversazione pacificamente. — II Tim. 2:24-26.
Non è stato facile trasformare la mia personalità e imparare a usare la facoltà della ragione invece dei pugni. Ma sono senz’altro più contento di stare con la mia famiglia, di lavorare la terra, di badare agli animali e servire Dio in qualche piccolo modo. Che contrasto con le luci abbaglianti del ring e la sete di sangue della folla volubile! — Rom. 12:1, 2; Col. 3:10, 12.
La mia decisione di lasciare il ring sconcertò Carlos, che continuò la sua carriera. Lasciamogli raccontare ciò che avvenne poi:
Circa un anno dopo il ritiro di Francisco, qualcuno bussò alla mia porta. Era lo stesso Testimone che aveva visitato lui. Lo invitai a entrare e dopo una conversazione mi chiese se volevo studiare la Bibbia. Pensavo: “Non ci si rimette nulla a conoscere”, e ad ogni modo ero curioso di sapere cosa aveva avuto un così grande effetto su mio fratello. Così accettai di studiare, ma dissi chiaramente che io non avrei mai rinunciato alla boxe per la religione.
Credo di avere avuto la prima grossa sorpresa quando verificai i Dieci Comandamenti nel libro biblico di Esodo. Pensavo di averli imparati a memoria quando andavo a scuola, ma i comandamenti della Bibbia erano diversi da quelli della versione ecclesiastica. Per esempio, non avevo mai sentito parlare del secondo comandamento che vieta l’uso delle immagini nell’adorazione. Per nascondere questa omissione, la versione della chiesa aveva ricavato due comandamenti dal decimo. Questo imbroglio mi aprì gli occhi. — Eso. 20:4-6.
Dopo pochi studi biblici soltanto cominciai a lottare con la mia coscienza. Mia moglie stava accettando la verità cristiana, e io capivo che se continuavo a studiare la Bibbia la mia vita di pugile era segnata. Così alcune volte trovai dei pretesti per non fare lo studio, e altre volte sperai semplicemente che il Testimone si dimenticasse di venire. Nondimeno, la Bibbia influiva sul mio modo di pensare. Lo compresi quando il 10 ottobre 1971 difesi il mio titolo di campione dei welter pesanti in un incontro disputato contro Angel Guinaldo di Salamanca.
Quando salii sul ring la folla urlò: “Dagliele, San José! Finiscilo in fretta!” “Colpiscilo col tuo sinistro”, ed espressioni simili. Il mio avversario era nell’angolo in attesa dell’opportunità di soffiarmi il titolo. Nello stesso tempo la mia coscienza lavorava. Mi vennero in mente le parole della Bibbia riportate in I Giovanni 4:20: “Chi non ama il suo fratello, che ha visto, non può amare Dio, che non ha visto”. Nella mia mente si affollarono molti altri versetti, che condannavano la mia azione, mentre cercavo di giustificare quanto stavo per fare.
Suonò il gong. Mi trovai a faccia a faccia con il mio avversario. Mentre combattevamo, la coscienza non mi dava pace. Mi chiedevo: “Cosa sto facendo qui? Ti prego, mio Dio perdonami!”
L’incontro sembrò durare un’eternità. Ma io desideravo tanto ritirarmi dal ring come campione in carica. C’era di mezzo il mio orgoglio. Volevo si sapesse che rinunciavo alla boxe per amore verso Dio e non perché avevo perso il titolo.
Finalmente il combattimento terminò, ma non con il mio solito pugno che metteva l’avversario k.o. Avevo vinto o perso? Attesi con ansia il verdetto. L’arbitro annunciò . . . il pareggio. Ero ancora il campione!
Adesso ero considerato ufficialmente in gara per il titolo europeo. Avevo lavorato e combattuto per anni per ricevere quell’opportunità. Ero incalzato da ogni parte: dalla mia coscienza e da coloro che ruotavano attorno a me nel mondo della boxe. Studiavo continuamente la Bibbia e assistevo alle adunanze cristiane. Di conseguenza c’era una forza che spingeva la mia mente. In termini pugilistici, la Bibbia mi aveva messo alle corde e stavo per andare al tappeto. Come potevo resistere a scritture come queste: “Tratto con durezza il mio corpo e lo conduco come uno schiavo, affinché, dopo aver predicato agli altri, io stesso non sia in qualche modo disapprovato”? e: “L’amore non fa male al prossimo”? — I Cor. 9:27; Rom. 13:10.
Riuscii a far passare alcuni mesi senza accettare un altro incontro. Poi nel febbraio del 1972 ricevetti una lettera dalla federazione pugilistica con cui mi informavano che avevo quindici giorni di tempo per difendere il mio titolo altrimenti l’avrei perduto. Mi rivolsi a Geova in preghiera, chiedendogli aiuto e guida. L’aiuto venne e annunciai il mio ritiro dal ring a motivo dei miei principi religiosi.
La cosa fece senz’altro sensazione. Fui intervistato due volte alla TV per spiegare i miei motivi. Molti tifosi criticarono la mia decisione. Ma alla fine ero in pace con me stesso. Avevo ottenuto una vera vittoria.
A volte mi chiedono se rimpiango la boxe. Allora mi torna in mente una foto, pubblicata dai giornali, di Francisco e me in calzoncini, con le mani fasciate per il combattimento. La didascalia diceva: “Carlos e Francisco San José, a faccia a faccia. Anche se in diverse categorie di peso, entrambi i fratelli cercano un compenso per le loro fatiche nell’effimera gloria del ring”. Notate: “effimera gloria”. “Effimero” viene da una parola greca che alla lettera significa: che dura un sol giorno. Com’è vero nel mondo della boxe!
Ho avuto modo di parlare con alcuni pugili un tempo famosi. Che triste spettacolo! Ripensano sempre alla loro gloria di breve durata. Dove sono ora i loro “amici”? Quante volte ho visto un pugile avere “amici” solo quando vince, e quando quegli “amici” vincono denaro grazie alle sue vittorie. Se comincia a perdere, gli “amici” si dileguano.
In quanto a far fortuna, ebbene, non sono certo diventato ricco con la boxe. Circa un terzo della borsa serve a coprire le spese degli allenamenti e quelle amministrative. E il resto serve a mantenere la famiglia nei mesi tra un incontro e l’altro.
Tuttavia, da che sono diventato Testimone ho guadagnato molto di più in altri modi. Adesso ho degli amici sinceri la cui amicizia si basa su valori veri e duraturi, anziché sulla gloria riflessa di un idolo. Sono i miei fratelli spirituali insieme ai quali predico la “buona notizia” a San Salvador del Valle, nella provincia di Vizcaya, qui nella Spagna settentrionale. E mentre prendo parte a questa opera ho il privilegio d’essere testimone della più grande persona dell’universo, Geova Dio.
Quando assisto alle assemblee cristiane, spesso mi vengono in mente i giorni in cui facevo il pugile, semplicemente perché tali assemblee si tengono in luoghi dove anni fa ho disputato degli incontri di boxe. Questo è accaduto nel 1978 all’assemblea internazionale di Barcellona, tenuta anche nel Palazzo dello Sport, dove contribuii alla morte del pugile nigeriano Daudu. Che contrasto! Invece di una folla assetata di sangue che chiedeva urlando il k.o., c’era una pacifica moltitudine che ascoltava la Parola di Dio in un’atmosfera d’amore e di tranquillità.
Precedentemente, nel 1974, quando avevo assistito all’assemblea di distretto dei testimoni di Geova al campo di calcio di Salamanca, vidi venire nella mia direzione un Testimone robusto che mi pareva di conoscere. Mi guardò, mi oltrepassò e poi si rigirò per guardarmi di nuovo, come stavo facendo anch’io. Sbalorditi, esclamammo: “Ma tu devi essere Ben Bachir!” “E tu San Jose II!” Proprio così. Noi che prima eravamo stati nemici sul ring ora eravamo uniti come fratelli cristiani.
Francisco ed io siamo lieti di avere lasciato il sordido mondo della boxe, con la sua crudeltà e violenza, la sua avarizia, i suoi imbrogli e il suo sfruttamento. Abbiamo trovato una via migliore, la via cristiana dell’amore, che offre una ricompensa duratura, l’approvazione di Dio e la vita eterna. — Ebr. 11:6; Rom. 6:23.