Dove abbiamo sbagliato in Afghanistan
Dopo vent'anni di missione occidentale e l'annuncio dell'abbandono del paese, l'Afghanistan si ritrova punto e a capo, in mano alle forze talebane. Un fallimento americano su cui dovremmo interrogarci
Di Afghanistan probabilmente si parlerà per lungo tempo, esempio di un grande fallimento a stelle e strisce. Sono passati pochi mesi da quando Joe Biden ha annunciato ufficialmente, in linea con i piani dei suoi predecessori, che entro l’11 settembre prossimo gli Stati Uniti avrebbero completamente lasciato il paese. Arrivati a quella data, è possibile che l’Afghanistan sarà già del tutto in mano ai talebani, la cui rimozione dal potere è stata la ragion d’essere di una missione occidentale durata vent’anni e costata molto in termini umani e finanziari.
Nel giro di poche settimane una provincia dietro l’altra sono cadute come birilli davanti all’avanzata talebana. Nelle scorse ore è toccato a centri molto importanti come Herat e Kandahar, ormai due terzi del paese sono stati sottratti alle forze governative. Tutto questo sta lasciando sul terreno moltissime vittime soprattutto dal lato dell’esercito, mentre tra matrimoni forzati, stupri e altre violenze indiscriminate si parla già di massicci crimini di guerra e contro l’umanità operati dalle milizie talebane. Di fronte al collasso dell’Afghanistan, fino a qualche giorno fa si diceva che la caduta della capitale Kabul sarebbe potuta avvenire nel giro di sei mesi-un anno. Le ultime proiezioni parlano invece di 90 giorni, un periodo destinato a scendere ulteriormente vista la rapidità dell’offensiva.
Vent’anni fa, dopo l’attacco alle torri gemelle di New York e la protezione del regime talebano dei terroristi coinvolti, gli Stati Uniti a braccetto con le potenze occidentali della Nato correvano in Afghanistan per rovesciare il potere dei fondamentalisti islamici ed “esportare la democrazia”, secondo una formula tanto cara a Washington.
Venti anni dopo nulla è cambiato e si è avuta la conferma che tutti quei progressi gridati al mondo sotto forma di stabilizzazione del paese e addestramento delle forze governative per sventare eventuali future offensive erano in realtà un fuoco di paglia. L’Afghanistan si ritrova lì dove era all’inizio del millennio e la sensazione è che sia stato sprecato molto tempo, oltre che ingenti risorse (un trilione di dollari, un numero con così tanti zeri da renderne difficile la scrittura).
Il problema in Afghanistan è che per troppo tempo si è fatto finta che la missione stesse andando bene. Come rivelano però migliaia di lettere come quelle pubblicate dal Washington Post, ma anche editoriali di analisti e interviste postume di chi nel paese ci è stato, il senso del fallimento si respira da parecchi anni. Che il paese versasse ancora nel caos, che il nuovo stato democratico fosse in realtà un coacerbo di corruzione, che la forza dei talebani fosse solo addormentata e non sconfitta, che quella occidentale fosse ormai una mera presenza deterrente priva di strategia e obiettivi a lungo termine nel paese, è una certezza che accompagna i militari e i governi coinvolti da tempo. Se ora se ne stanno andando tutti, se l’Afghanistan è stato lasciato a sé come un bambino a cui vengono tolte le rotelle della bicicletta, non è perché si è convinti della sua capacità di farcela da solo, ma proprio perché l’insabbiamento del fallimento non poteva andare avanti per molto. L’offensiva di queste settimane era quindi data per scontata e non si è nemmeno fatto molto per evitarla, se come sottolinea il New York Times l’occidente ha deciso di andarsene proprio nel momento stagionale di massima forza offensiva talebana, in quella che suona soprattutto come una fuga prima che fosse troppo tardi. E non ha offerto alcun tipo di supporto reale di fronte all’inevitabile.
A guardare con sospetto alla situazione afghana ora è soprattutto l’Europa, culla di democrazia che non è tanto scossa dai crimini contro l’umanità in corso di esecuzione nel paese ma dalle conseguenze migratorie derivanti, in quella abituale paranoia sovranista per cui ogni disastro globale è letto nell’ottica della tenuta delle proprie frontiere. Gli Stati Uniti, invece, lavorano di diplomazia sperando che si trovi una soluzione interna di qualche tipo, magari una condivisione di potere tra talebani e governo afghano, che limiti i danni d’immagine propri e della missione di cui per venti anni sono stati a capo.
Si è andati in Afghanistan per i propri tornaconti personali e ora che il paese è stato abbandonato si continua a ragionare in quest’ottica. Intanto a Kabul e dintorni si combatte, si muore e si soffre, tormentati dall’idea di essere stati cavie di un ennesimo esperimento fallito.
Fonte