Carissimo Barnabino
Mi permetto di esprimere due osservazioni sulle difficoltà incontrate dai cristiani del I secolo nell’accettare la figura di Gesù Cristo alla luce del monoteismo ebraico.
I) Esprimo dapprima qualche perplessità sulle cause dell’apostasia di Aquila: sembra infatti che siano i cristiani ad averlo accusato di pratiche magiche, mentre i giudei lo tennero in grande conto ed ebbero il massimo rispetto verso di lui
Le pratiche magiche erano infatti duramente condannate dalla Torah (vedasi Deuteronomio 18,9-14; Levitico 19,31; Levitico 20,27) e non si capisce come Aquila avrebbe potuto essere accettato ed osannato dalla comunità ebraica.
Quello che invece sembra contraddistinguere l’atteggiamento di Aquila è il rifiuto di Cristo, rifiuto che emerge chiaramente:
· dal rifiuto della versione dei Settanta (che permetteva la lettura cristiana di molte profezie);
· dalla stesura di una nuova traduzione greca (che eliminava la parola “Cristo” da tutto il vecchio Testamento e reintroduceva il tetragramma in evidente polemica con il Kurios della Settanta);
· dalla libera e convinta apostasia dalla fede cristiana per aderire all’ebraismo.
II) la seconda perplessità riguarda la pacifica accettazione di Cristo da parte dei neo convertiti al cristianesimo provenienti dal giudaismo.
Quando Matteo Pierro fu ospitato da un’autorevole rivista cattolica (Matteo Pierro, JHWH: il Tetragramma nel Nuovo Testamento, in “Rivista Biblica”, anno XLV, n. 2, aprile-giugno 1997, pp. 183-186) per esprimere un’ipotesi di studio sulla possibile presenza del tetragramma nelle versioni aramaiche del Nuovo Testamento scoppiò un vero e proprio putiferio. L’articolo del Pierro (che è un testimone di Geova) fu attaccato con parecchio sdegno e non poca intolleranza da molti cattolici ed evangelici, soprattutto perché accolto da un’autorevole rivista biblica cattolica. (l’unica replica serena, abbastanza equilibrata e priva di pregiudizi venne da Carmelo Savasta, Il Nome Divino nel Nuovo Testamento, in “Rivista Biblica”, anno XLVI, n. 1, gennaio-marzo, 1998, pp. 89-92).
Il lavoro conteneva alcune informazioni interessanti che forse sarebbe stato il caso di approfondire (anche se non si fossero condivise le tesi del Pierro). Tali informazioni riguardavano la primitiva redazione aramaica del Vangelo di Matteo e le tesi dei giudeo-cristiani sulla natura di Cristo. Moltissimi giudei accolsero Cristo ma continuarono a mantenere stretti legami con la Torah, con l’ebraismo, la legge mosaica e con la comunità giudaica. Erano ebioniti, nazareni, elcasaiti e giudeo-cristiani che, pur accettando la salvezza di Cristo, non se la sentirono di seguire l’apostolo Paolo nello strappo con il vecchio culto. Alcuni di essi credevano Cristo figlio carnale di Giuseppe e Maria, mentre per altri Cristo non era altro che un angelo (vedasi, ad esempio, Tertulliano, La Carne di Cristo, XIV).
Sulla primitiva redazione aramaica del Vangelo di Matteo esistono poi testimonianze autorevoli (nonostante lo sfottò subito dal povero Pierro). Secondo Origene "Matteo pubblicò il suo scritto in lingua ebraica per i credenti venuti dal giudaismo" (Eusebio, Storia Ecclesiastica, VI, 25). Ireneo poi afferma che "Matteo, fra gli ebrei nella loro lingua, compose un Vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e fondavano la chiesa" (Ireneo, Contro le eresie, III). Papia di Gerapoli sostiene che "Matteo ordinò i detti del Signore in lingua ebraica" (Eusebio, Storia Ecclesiastica, III, 24). Secondo Eusebio di Cesarea, Matteo, dopo aver predicato la buona novella agli ebrei, compose nella lingua patria il proprio Vangelo, prima di andare a predicare presso altri popoli (Eusebio, Storia Ecclesiastica, III, 24). Eusebio di Cesarea riporta anche la testimonianza del filosofo stoico Panteno che, convertitosi con grande entusiasmo al cristianesimo, decise di recarsi in India a predicare il Vangelo. Scoprì che il Vangelo di Matteo lo aveva preceduto, grazie all'opera dell'apostolo Bartolomeo che aveva lasciato là l'opera di Matteo scritta in ebraico (Eusebio, Storia Ecclesiastica, V, 10). Degna di nota è anche la testimonianza di Girolamo, secondo il quale "Matteo, detto anche Levi, da pubblicano fattosi apostolo, fu il primo in Giudea a scrivere il Vangelo di Cristo nella lingua degli ebrei per quelli che si erano convertiti provenendo dal giudaismo …..lo stesso originale si trova tuttora nella biblioteca di Cesarea ….I nazarei che fanno uso di quel libro …. permisero anche a me di ricopiarlo" (Girolamo, Gli uomini illustri, III). La moderna critica testuale ha comunque avanzato non pochi dubbi sull'esistenza di un vangelo di Matteo in lingua aramaica: secondo molti Girolamo non ebbe modo di consultare il vero originale ma il cosiddetto "Vangelo apocrifo degli ebrei", documento custodito dalla setta giudaico-cristiana degli ebioniti.
Epifanio di Salamina distinse però chiaramente tra gli ebioniti apostati e filo-giudaici ed i nazareni cattolici (Contro tutte le eresie, XXIX-XXX), sottolineando come i nazarei accettassero tutti i libri del Nuovo Testamento e fossero legati ad un Vangelo di Matteo in lingua ebraica, molto fedele, completo ed accurato, mentre il cosiddetto Vangelo secondo gli Ebrei degli ebioniti altro non fosse che una versione greca, mutilata e falsificata, del Vangelo secondo Matteo (Epifanio, Panarion, XXIX-XXX). Giustino martire parlò poi sia di una setta giudaico-cristiana, osservante la legge di Mosé ma ancora ortodossa e tollerante nei confronti dei gentili, sia di una setta deviante fedelissima alla legge di Mosé ma caduta nell'apostasia e nell'intolleranza verso i gentili (Dialogo con Trifone, XLVI-XLVIII). La stessa tesi di Giustino è confermata da Origene che ricorda come tra gli ebioniti esistessero profonde differenze: alcuni riconoscevano la nascita verginale di Cristo e la sua resurrezione, mentre altri vedevano in Cristo solo un comune mortale (Contro Celso, V, 61).
Eusebio di Cesarea ricordò poi come alcuni ebioniti vedevano in Cristo solo il figlio di Maria, mentre altri riconoscevano che il Signore nacque da una Vergine e dallo Spirito Santo ma non riconoscevano la preesistenza del Verbo e della Sapienza di Dio (Storia Ecclesiastica, III, 27). Della comunità degli ebioniti parlarono diffusamente soprattutto Ireneo (Contro le eresie, I, 26), Eusebio (Storia Ecclesiastica III, 27), Origene (Contro Celso, II, 1) e Tertulliano (La prescrizione degli eretici, III, 5 e La Carne di Cristo, XIV), ricordando come tale setta fosse molto ligia alle usanze ed alle leggi giudaiche, osservasse il riposo sabbatico, praticasse la circoncisione e riconoscesse come ispirato solo il Vangelo di Matteo, rigettando in blocco tutti gli insegnamenti e le lettere di Paolo, considerato nemico del giudaismo ed apostata dalla fede dei padri. Secondo Ireneo la comunità degli ebioniti rifiutava anche la nascita verginale di Cristo, non considerando Gesù figlio di Dio ma figlio di Giuseppe (Contro le eresie, III, 21). Molto duro è infine il giudizio di Gerolamo sugli ebioniti. Egli infatti scrive che “Essi professano la nuova dottrina senza rinunciare a quella antica…fingono di essere cristiani…sono detti nazareni o minim….credono come noi in Cristo Figlio di Dio, nato dalla Vergine Maria, morto sotto Ponzio Pilato e resuscitato ….ma mentre vogliono essere giudei e cristiani allo stesso tempo….non sono né giudei né cristiani (Gerolamo, Lettera, LXXV, 13).
Alla fine i giudeo-cristiani si trovarono espulsi dalla sinagoga e dalla chiesa……
Un recente libro che mi permetto di segnalare può sicuramente illuminare cattolici e testimoni di Geova su tale argomento. Si tratta di J. P. Lémonon, I giudeo-cristiani: testimoni dimenticati, 2007, Edizioni Paoline, euro 10.
enrico