Raddoppiati in un anno i minori migranti senza genitori
niccolò zancan
inviato a pozzallo (ragusa)
Una sera d’agosto sbarcano due bambini con uno zaino solo. Dentro ci sono due spazzolini, un dentifricio, un rotolo di carta igienica preso sulla nave della marina militare. «Mio padre faceva il poliziotto» dice Jahi, quello che porta lo zaino. «Papà è morto e mamma ci ha detto di partire» dice Kalid, il più basso. Hanno 9 e 10 anni, arrivano da Damanhur, Egitto. Stanno sempre vicini, e sorridono. «Lavoro dentro l’hotspot di Pozzallo da più di tre anni e non avevo mai visto niente del genere», dice l’educatrice Franca Assenza.
«Una volta i minori non accompagnati erano quasi sempre sull’orlo dei diciott’anni. Adesso l’età media si è abbassata a 15 anni. Questo è l’anno dei migranti bambini. C’è stato uno sbarco in cui ne sono scesi, in una sola notte, 123».
Sono un piccolo esercito in cerca di pace e futuro. Nel giro di un anno sono raddoppiati: 16.863 contro 8.345. Viaggiano in gruppi e ripetono sempre le stesse parole: scuola, documenti, trasferimento. Sono venuti a riscattare la povertà di famiglie e generazioni. Ma dopo la prima accoglienza, dopo qualche giorno di sfinimento e riposo, quando è stata certificata la loro minore età, che fine fanno?
La prima regola che impari in Sicilia è che non c’è regola. Altrimenti sarebbe impossibile trovare bambini come Jahi e Kalid in una struttura blindata per adulti, come quella di Pozzallo. Dopo lo sbarco la tua vita può cambiare senza alcun criterio logico. Ad esempio, puoi finire in quello che una volta si chiamava Hotel Tre Stelle, proprio così, dietro la curva, alla fine del paese. Era chiuso per fallimento.
È stato riconvertito in centro di accoglienza straordinaria, e dato in gestione alla cooperativa «Azione Sociale». Ma anche quella è una struttura per adulti. E questi quarantadue ragazzini provenienti da Gabon, Nigeria, Etiopia ed Eritrea son qui da luglio. Non vanno a scuola e non fanno niente tutto il giorno, ad essere precisi. «Il fatto è che non c’erano sistemazioni più idonee e quindi, per ora, si devono arrangiare» dice Marinella Tussellino, la vicepresidente della cooperativa. Arrangiarsi è la seconda regola. Ma se ti prendono a schiaffi ogni volta che metti il naso fuori di casa, cosa devi pensare?
Succede in via Parioli, a Gela. È la periferia di una delle città più problematiche d’Italia. C’era una volta un palazzo vuoto, ed è stato riempito di ragazzini africani. Uno si chiama Kamara, è partito dal Gambia ed è arrivato qui da solo a 16 anni: «I ragazzi italiani passano con gli scooter. Lanciano sassi contro le nostre finestre. Urlano: cornuti! Negri di merda! Figli di puttana!». Ad agosto sono intervenuti i carabinieri. La situazione non è migliorata. «Non vogliono lasciarci camminare per strada», dice Kamara. «Ci colpiscono sulla testa, accelerano e scappano via. Io voglio dirgli che non abbiamo paura».
I 76 euro al mese per le spese personali non arrivano quasi mai. Spesso i migranti ragazzini ricevono solo la quota messa dal ministero dell’Intero di 46 euro. Si chiama pocket money. Ed è un’altra causa di tensioni. Ieri a Gela è stato arrestato un ragazzino che pretendeva i soldi con le cattive maniere. Pochi giorni fa, due ragazzi egiziani hanno sequestrato gli operatori dentro il loro ufficio: sono stati arrestati anche loro. È successo nel Comune di San Michele di Ganzaria, in un ex convento di suore a 5 chilometri dal primo centro abitato, in mezzo ad una distesa di cactus.
«Comuni e Regioni non hanno più soldi, non riescono a mettere la loro parte» dice Vincenzo Di Mauro, presidente dell’ente pubblico che gestisce il Convitto Regina Elena di Catania. Lì, alle 11 di mattina, 55 ragazzini sono quasi tutti in camera a dormire. «Scegliamo di comprare il cibo, ma non possiamo pagare gli stipendi agli operatori. Siamo in arretrato di venti mensilità. Non ce la facciamo neppure con le bollette della luce e del gas», dice Di Mauro. E sui ragazzini che arrivano in Italia, aggiunge queste parole: «Molti scappano. Non possiamo farci niente, non è una prigione. I segnali che arrivano negli ultimi mesi sono inquietanti. Ci sono organizzazioni criminali dietro molti viaggi. Abbiamo avuto notizie di migranti venduti dalle famiglie per il traffico d’organi».
La terza regola è che tutti i migranti, e in particolare i migranti ragazzini, sono una fonte di reddito per altri. Prendi il caso di Nunziata, un piccolo centro all’ombra dell’Etna. C’è un palazzo nuovo interamente invenduto. I cartelli sono ancora appesi. Il primo piano è stato riconvertito in centro di seconda accoglienza. Sul campanello c’è scritto «Cooperativa Esperanza». Dentro ci sono sedici adolescenti africani in tre stanze, completamente soli. Si sono dati i turni per le pulizie e la cucina. Ieri hanno lavorato Ousman e Nije. Oggi tocca a Sheik e Kebba. «Non vediamo mai nessuno. Il proprietario abita a dieci chilometri. Non ci dà i soldi, non ci dà i vestiti. Nessuna assistenza. Dobbiamo andare a scuola a Fiumefreddo, ma abbiamo solo queste ciabatte e una maglietta. Anche la lavatrice è da buttare». Quanto ci metteranno Kebba e gli inquilini di casa Esperanza a decidere di scappare?
Ogni giorno in Italia scompaiono 28 migranti ragazzini. Saranno oltre 10 mila alla fine dell’anno. Puoi finire molto male ma anche bene, per fortuna. A Giarre c’è la comunità San Giovanni Battista dove abitano 56 profughi minorenni. Tutti frequentano la scuola. C’è una piccola moschea, una cuoca africana e un compleanno da festeggiare insieme. E ti rendi conto subito che dove c’è cura fiorisce sempre qualcosa che assomiglia alla vita.