Morphé: evoluzione di una traduzione ....
Nel Nuovo Testamento il termine μορφή è usato solo due volte (Filippesi 2,6 e Marco 16,12), mentre nell'Antico Testamento compare varie volte nella Settanta (ad esempio: Giudici 8,18; Giobbe 4,16; Isaia 44,13; Daniele 3,19; Daniele 5,6; Tobia 1,13; Sapienza 18,1; 4 Maccabei 15,4) con il senso di "
aspetto, immagine, portamento, sembiante, espressione, apparenza, forma visibile, condizione, stato".
Si noti che Filippesi 2,6 usa μορφή in senso di "forma", "condizione", "stato", "rango", "natura, "essenza", anche se per "natura" o "essenza" ci si sarebbero aspettati i termini greci ουσια (ousia) e φυσισ (fusis).
Occorre tener conto che, molto probabilmente, Paolo non intese ripercorrere le dotte categorie di "forma e materia" o di "forma e sostanza" elaborate da Platone e da Aristotele all'interno del pensiero filosofico greco.
Il termine "morfé fu invece qui impiegato per evidenziare ed enfatizzare la cosiddetta "kenosis", cioè il passaggio di Gesù Cristo dalla forma di Dio (morphé theou) alla condizione di servo (morphé doulou). Il fatto che μορφή non indichi solo la forma esteriore ma anche lo stato, la condizione e la sostanza sembra a molti chiaramente confermato da Colossesi 2,9, dove l'apostolo Paolo ribadì che in Gesù Cristo "abita corporalmente tutta la pienezza della divinità".
Che Paolo si riferisse, invece, solo all'aspetto esteriore, alle sembianze e alle apparenze, senza voler per forza affrontare un discorso sulla natura ed sull'essenza del Logos, pare ad altri evidentemente dimostrato dal fatto che il termine morfé fu usato da Marco per dire che, dopo una prima apparizione successiva alla resurrezione, "Gesù apparve ai discepoli sotto altro aspetto" (Marco 16,12), senza peraltro subire una evidente metamorfosi interiore né tantomeno un reale cambiamento ontologico.
A tutto ciò va aggiunto il fatto che alcuni classici greci usarono il termine μορφή anche nel senso di "gloria, bellezza, splendore e leggiadria". Hanno pertanto interpretato il termine "morfé" come "condizione, stato, rango, posizione" e, in via subordinata, pure come "natura, essenza e sostanza" anche non pochi Padri della Chiesa come Basilio, Gregorio di Nissa, Cirillo Alessandrino, Giovanni Crisostomo e Giovanni Damasceno. A tal proposito, emblematico è quanto scrisse Basilio di Cesarea già verso la metà del IV secolo: "L'espressione essendo in forma di Dio ha lo stesso valore di essere in sostanza di Dio. Come infatti le parole aver preso forma di servo significano che nostro Signore fu generato nella sostanza di uomo, così, dicendo essere in forma di Dio, l'Apostolo presenta proprio la peculiarità della sostanza divina" (Basilio, Contro Eunomio, I, 18).
Negli ultimi due secoli moltissimi studiosi hanno condiviso l’idea che μορφή altro non fosse che "
il modo con cui un essere manifesta esteriormente la sua natura" (Robertson, Scofield, Strong, Thayer, Vine, Wesley).
Negli ultimi decenni, alcuni ricercatori sono però ritornati a traduzioni meno condizionate dalla teologia, rendendo “morfé” con
condizione (Benoit, Bonnard, Dupont, Feuillet, Kennedy, Heriban, Milligan, Tillman), con
status (Schnackenburg),
con fattezza (Grelot e Zedda), con
modo d’esistere (Gnilka e Kaseman) e con
forma (Ballarini e Martin).
Al momento, la traduzione che raccoglie maggiori consensi, nel contesto dell’inno paolino, è “condizione", termine che meglio di altri rende l’opposizione ed il parallelismo tra la “morfé theou” di Filippesi 2,6 e la “morfé doulou” di Filippesi 2,7, cioè tra la condizione di Dio e la condizione di servo.
Una bibliografia ricca, articolata ed interessante è presente nell’opera monumentale di
N. Capizzi, L’uso di Filippesi 2,6-11 nella cristologia contemporanea, Roma, 1997, pp. 41-43.
L'autore ricorda, tra l'altro, come la traduzione che oggi raccoglie i maggiori consensi (
condizione di Dio) sia realmente libera da condizionamenti filosofici e teologici sulle nature di Cristo (paradossalmente, secondo un'esegesi molto letterale ma ragionevole, Gesù dovrebbe possedere sia la sostanziale natura di Dio che l'intrinseca natura di servo), mentre in un passato neppur troppo remoto anche alcuni autorevoli studiosi (Behem, Heriban, Lamarche, Lighfoot, Martin, Murphy-O'Connor) hanno spesso risentito di alcune suggestioni filologiche sulla presunta equivalenza dei termini morfé (forma), doxa (gloria) e eikon (immagine).